Dentro il Lombardia: l’ultima corsa dello Squalo

Andare a vedere le gare di ciclismo dal vivo è un atto di fede: un rito laico e popolare che si tramanda da generazioni. Centinaia di persone che si radunano a bordo delle strade come tanti pellegrini in attesa di quel brivido fugace al passaggio dei propri idoli a due ruote.

Passione irrazionale. È difficile far capire a chi non c’è mai stato quale sia l’emozione che si prova ad essere in quel luogo e in quel preciso istante. In fondo si tratta solo di un attimo: un fugace tremito di pura passione. Pochi secondi per scorgere in mezzo ai tanti volti trasfigurati dalla fatica il proprio atleta preferito. Giusto il tempo di un “Alé” gridato con tutto il fiato che si ha nei polmoni e il gruppo inesorabilmente scompare dietro la curva.

Ma andare a vedere una corsa a bordo strada non è soltanto questo. È l’emozione unica che si prova a risalire – a piedi o ancora meglio se in sella a una bicicletta – quelle strade che nel giro di pochi minuti saranno teatro dello scontro tra i propri beniamini. Come se un amante del calcio potesse palleggiare indisturbato sul terreno di San Siro poco prima di un derby.

E poi c’è la lunga attesa: quell’attesa leopardiana che è essa stessa la vera essenza della felicità. In quel lungo lasso di tempo che precede il passaggio dei corridori può succedere di tutto. Tra una grigliata improvvisata, cori da stadio e fiumi di birra, ci si confronta con gli altri spettatori, si fantastica sui possibili scenari tattici e, specialmente in cima alle montagne dove i cellulari fanno fatica a prendere, iniziano a correre “voci incontrollate e pazzesche”. Ma contrariamente al film di Fantozzi durante la proiezione della corazzata Potemkin, nelle fantasiose ricostruzioni non c’è l’Italia che sta vincendo venti a zero o Zoff che potrebbe aver segnato di testa su calcio d’angolo, ma indiscrezioni sull’evolvere della fuga o sulla possibile crisi di uno dei grandi protagonisti attesi. Un brusio di fondo che si interrompe solo quando all’orizzonte appare l’elicottero delle riprese, inequivocabile presagio dell’imminente passaggio della carovana.

Nonostante quest’anno avessi già assistito a diverse corse – Strade Bianche, Giro delle Fiandre, tre tappe al Giro d’Italia e la Coppa Bernocchi – il Lombardia era un appuntamento a cui non potevo assolutamente mancare. Proprio qui, infatti, sulle strade che ogni domenica diventano teatro delle nostre sfide a pedali – l’uno contro l’altro immaginando di scattare come i grandi campioni – avrebbero dato l’addio alle corse due eterni atleti cresciuti a cavallo tra il ciclismo alchimistico della fine degli anni Novanta e l’arrivo della nuova generazione di baby talenti che stanno completamente rivoluzionando questo sport: Vincenzo Nibali e Alejandro Valverde.

Don Alejandro è un’istituzione in gruppo: un vero e proprio senatore la cui carriera conta ben 133 vittorie. Un Dannato del pedale che invece che godersi la meritata pensione, a quarantadue anni e con oltre vent’anni di professionismo alle spalle, è ancora tra i protagonisti indiscussi in ogni corsa a cui partecipa. Giusto per dare un’idea del suo attuale livello di competitività è sufficiente citare le sue ultime tre apparizioni: secondo alla Coppa Agostoni, quarto al Giro dell’Emilia, terzo alle Tre Valli Varesine.

Ma se Valverde resta “l’Imbatido”, nel cuore di molti di noi c’è soprattutto Vincenzo Nibali, ormai quasi trentotto anni e 54 vittorie da professionista, di cui due Giri d’Italia, un Tour de France e una Vuelta, due Lombardia e una Milano – San Remo che resterà per sempre impressa negli occhi di noi appassionati. Attaccante per vocazione, istinto genuino e fiuto per la vittoria, lo “Squalo dello Stretto” ha da sempre lasciato il segno per il suo modo di correre. Insieme ad Alberto Contador, ha incarnato il mito del corridore che prova a far saltare il banco contro i dettami di quel ciclismo statico e controllato introdotto dal Team Sky. Una grinta e una voglia di superarsi che lo ha portato anche a rovinose cadute, come quella alle Olimpiadi di Rio che gli fece perdere una medaglia (probabilmente d’oro) ormai sicura.

Decidiamo di partire da Milano per poter osservare da vicino l’ultima avventura di questi due campioni. Siamo in tre: una bici da corsa, una gravel e una MTB. Tre modi di vivere la bicicletta quasi agli antipodi.  Il ciclismo, in fondo, è uno sport democratico. Qualunque sia il mezzo con cui lo percorri distribuisce a tutti la stessa dose di soddisfazione per la fatica superata. Una cinquantina di chilometri a ritmo tranquillo e una breve sosta lungolago per pranzare, prima di imboccare la strada transennata del San fermo della Battaglia. Lungo questa salita i corridori transiteranno per ben due volte.

Ci posizioniamo sui primi due tornati: uno stadio naturale che ci dà modo di seguire la corsa per diverse centinaia di metri. Di fianco a noi una miriade di appassionati da ogni parte del mondo. È una vera e propria bolgia.

Nell’attesa del primo passaggio dei corridori, un gruppo di tifosi travestiti da monaci iniziano a intonare una preghiera laica ai moderni apostoli di questo sport. “Wout Van Aert, prega per noi! Filippo Ganna, prega per noi! Peter Sagan prega per noi!”. Tra i tanti nomi a cui si rivolgono spunta persino Riccardo Magrini, ormai lontano dai fasti di quando da giovane correva su queste strade, ma certamente un profeta nella diffusione del verbo ciclistico.

L’attesa della corsa è un’esplosione di suoni. Tamburi, megafoni e persino delle motoseghe. I monaci ciclisti insieme a un altro gruppo di tifosi iniziano a offrire bicchieri di birra ai cicloamatori intenti a cercare di raggiungere la cima in bicicletta. A ogni bicchiere recuperato senza mettere il piede a terra scoppia un boato. Passano i minuti e la tensione inizia a salire. Sulla strada sfrecciano le auto dell’inizio corsa e le moto staffette. Si intravvede l’elicottero: ormai manca pochissimo.

Il primo passaggio dei corridori è frenetico. In testa un formidabile Davide Formolo scandisce un ritmo forsennato che inizia a scremare il gruppo. Alejandro e Vincenzo sono ancora lì nelle prime posizioni con lo sguardo concentrato mentre la folla acclama i loro nomi.

Dopo diversi minuti, in un gruppetto decisamente attardato, transita di fronte a noi un irriconoscibile Miguel Angel Lopez, completamente tagliato fuori dalla lotta per la vittoria. Qualche cicloamatore prova a inserirsi nella corsa per tenere le ruote dei corridori più attardati, ma è un’operazione impossibile. Nonostante questi atleti abbiano già percorso 250 km e nonostante siano ormai lontanissimi dai primi, infatti, il loro passo risulta comunque oltre le possibilità di qualsiasi comune mortale.

Se il primo passaggio è stato entusiasmante, il secondo è un’emozione indescrivibile. Passano in sequenza Pogacar, Mas e Landa, che si sfidano davanti ai nostri occhi con un buon margine di vantaggio sugli inseguitori. Appena più indietro Rodríguez e Higuita e a seguire un piccolo gruppetto con all’interno l’eterno Valverde, che dopo aver lavorato per il suo compagno di squadra Mas è ancora lì davanti per giocarsi un piazzamento importante.

Passano pochi secondi e un brivido inizia a risalirmi lungo la schiena. “Vin-cen-zo! Vin-cen-zo! Vin-cen-zo!” – Un grido parte dal tornante più in basso e piano piano cresce nel volume e nell’intensità. “Vin-cen-zo! Vin-cen-zo! Vin-cen-zo!”. Si avvicina a noi il gruppetto degli inseguitori. All’interno si scorge chiaramente la sagoma di Nibali che ci sorpassa con uno sguardo affaticato ma in fondo sereno. Chissà cosa gli starà passando per la testa in questo momento? “Vin-cen-zo! Vin-cen-zo! Vin-cen-zo!” Ora siamo in diverse centinaia a gridare all’unisono e la nostra voce rimbomba per tutta la valle.

In quel grido c’è tutto. C’è, sicuramente, tanta commozione. C’è il ricordo delle grandi imprese, come quella volta che Scarponi ormai lanciato verso la vittoria di tappa si sacrificò per aiutare lo squalo a ribaltare un Giro d’Italia partito male e chiuso in trionfo. C’è la gratitudine per le emozioni che 17 anni di carriera ci hanno regalato. Ma c’è anche il senso di vuoto e la consapevolezza che per anni in Italia non avremo un campione di questa portata.

Brividi ed emozioni di una giornata intensa, che ci trasciniamo nei rimanenti 50 km che ci separano da casa e che trovano un rinnovato orgoglio accendendo la televisione per assistere allo spettacolo che sta andando in scena al velodromo di Grenchen.

56.792 km in un’ora. 228 giri di pista. Una follia tricolore su due ruote. Una sorta di passaggio di testimone generazionale. Ma questa è tutta un’altra storia, che solo con il tempo potremmo scoprire veramente fino in fondo.

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