Sarà che il 5 maggio si correrà la granfondo BGY Airport – la corsa ciclistica amatoriale tra le valli bergamasche, che nel cuore di tutti gli appassionati resterà per sempre “la Gimondi”. Sarà il clima rigido, decisamente fuori stagione, di queste settimane. Ma nella mia mente continua ad affiorare il ricordo di quella folle edizione del 2019, l’ultima con ancora in vita il campione gentile di Sedrina, anch’essa disputata il 5 maggio, quando una bufera di neve travolse la corsa e decine di cicloamatori furono soccorsi per un principio di assideramento. Chi di voi se la ricorda?
Occorre premettere che, nella vita come nello sport, il confine tra audacia e follia è decisamente labile e soggettivo. Penso a quei due simpaticissimi ragazzi che abbiamo conosciuto qualche sera fa in un locale danzereccio alla periferia di Milano. Era quasi l’una e loro – non lo direste mai – stavano rientrando piuttosto “alterarti” da un incontro di filosofia organizzato in un teatro del centro. Sostenevano di aver passato la serata a formulare domande talmente pungenti da aver smontato l’impianto teorico e aver messo in imbarazzo lo speaker del convegno, un noto filosofo di fama internazionale. Chissà se questo racconto non sia il prodotto di quella lucida follia alimentata dalla “polvere bianca” o se in quel teatro milanese, in un’anonima serata di aprile, si sia davvero consumata un’audace tenzone a colpi di argomentazioni filosofiche?
Audacia e follia, due mondi troppo spesso interrelati, che mai come nel ciclismo tendono a fondersi in una cosa sola. Se, infatti, ognuno di noi – chi in maniera più esplicita e chi senza rendersene effettivamente conto – anela a superare continuamente i propri limiti, a spingersi centimetro dopo centimetro sempre più avanti, dove finisce il concetto di intraprendenza e inizia quello di incoscienza? Allo stesso modo, in un contesto in cui ciascuno ha capacità genetiche, abilità tecniche, livelli di preparazione e disposizioni mentali differenti, quello che per qualcuno può essere considerato follia è realmente ascrivibile per tutti allo stesso modo? Domande che forse potremmo definire pseudo-metafisiche, un po’ come quelle poste dai due improvvisati filosofi della notte, ma che mai come nell’edizione del 2019 della Granfondo Gimondi hanno assunto un significato profondo.
Era, come abbiamo detto, la mattina del 5 maggio. Dopo una settimana di sole e caldo, nella notte una violenta perturbazione si era abbattuta sulla provincia di Bergamo. Il meteo per la giornata era implacabile: pioggia battente, freddo e forte vento. Condizioni estreme che hanno convinto molti degli oltre quattromila cicloamatori iscritti alla granfondo a restare a casa.
Sono le sei del mattino. Assiepati nelle griglie di partenza poste in prossimità dello stadio, siamo non più di un migliaio. Del mio gruppo ci sono solo Simone e Matteo, due compagni di squadra decisamente fuori categoria, che so già che rivedrò solamente all’arrivo. Tutti gli altri, il mondo degli “umani”, ha saggiamente deciso di stare a casa. Mi rendo conto solo adesso, che forse avrei dovuto fare lo stesso. Mi guardo intorno preoccupato e vedo tante altre facce interrogative che si fanno largo tra le mantelline. Ad un certo punto, da lontano, scorgo la sagoma di Antonio, un altro compagno di squadra con la passione per le biciclette eroiche e le serate in compagnia, che ha deciso di raggiungerci senza preavviso. Sono rincuorato. Non sono l’unico degli “umani” che ha deciso di provarci.
Scorrono i minuti e fervono gli ultimi preparativi. C’è chi mangia una barretta e chi scruta il cielo per capire se è il caso di togliersi i gambali. Non amo particolarmente il mondo delle granfondo, proprio perché in queste fasi di pre-partenza, si respira una forte tensione agonistica che inibisce il dialogo e che rende tutti piuttosto soli di fronte alle proprie ambizioni e paure. Tuttavia, mai come in questa occasione il clima sembra diverso. Sguardi d’intesa e qualche parola di conforto. Le preoccupazioni connesse al meteo avverso, hanno spento molte delle velleità agonistiche. Oggi l’obbiettivo principale per quasi tutti è arrivare al traguardo indenni. Anche per questa ragione l’organizzazione ha deciso di annullare il percorso lungo e quello medio. Si pedalerà tutti sul corto. Poco meno di 90 km, con sole tre salite da scalare: il Colle del Pasta, il Colle Gallo e l’iconico Selvino, con i suoi 19 tornanti ciascuno intitolato a un campione bergamasco.
Quando manca meno di mezz’ora al via, la pioggia sopra di noi sembra essersi placata. “Stai a vedere che il meteo si è sbagliato. Dopotutto, la fortuna aiuta sempre gli audaci. Mi sa che abbiamo avuto ragione noi a scegliere di partire”. Sono solo alcune delle frasi che iniziano a riecheggiare intorno ai nastri di partenza.
Ma è una pura illusione. Alle 7.05, appena pochi minuti dopo il via, quando siamo ancora nell’abitato di Bergamo, le prime gocce di pioggia tornarono a farsi sentire con insistenza. Nonostante l’asfalto bagnato il ritmo è come sempre forsennato. Affrontiamo le brevi rampe del Colle del Pasta che la situazione è ancora gestibile anche se in questa fase più che la pioggia è il vento il vero nemico. Sulla discesa che porta in Val Cavallina, infatti, spingo forte sui pedali, ma nonostante i miei quasi novanta chili, la bici resta inchiodata. Lungo tutta la vallata, poi, la situazione precipita definitivamente. La pioggia diventa torrenziale e il vento gelido piega le poche speranze rimaste. Sarà una giornata da tregenda. Chissà se siamo stati audaci o dei semplici scellerati?
Mentre mi perdo in questi pensieri, noto su un display luminoso che la temperatura tocca i 6 gradi. Con queste freddo, penso, è fondamentale non dimenticarsi di mangiare. Decido, allora, di afferrare una barretta dalla tasca posteriore, ma i guanti ormai fradici e le mani intorpidite rendono questa operazione vana. Ma non è tutto. Questo movimento goffo alla ricerca del cibo contribuisce ad aprire accidentalmente la zip del mio k-way, che inizia a svolazzare come fosse il mantello di un supereroe. Provo a chiuderlo ripetutamente, ma non c’è verso. Ogni volta che tento di togliere le mani dal manubrio il vento mi fa sbandare pericolosamente. Nessuno mi dice niente, ma riesco a percepire nitidamente il fastidio di chi mi sta intorno.
Fortunatamente, l’ira dei miei vicini dura giusto pochi chilometri, il tempo di svoltare a sinistra e ricominciare a salire verso il Colle Gallo, un’ascesa lunga e regolare che, oltre a far cessare l’incontrollato svolazzamento della mia mantellina, mi permette di riprendere calore. Ma è solo una tregua estemporanea. Verso la cima, infatti, iniziano a comparire i primi fiocchi di neve. Nulla di preoccupante per il momento, ma se nevica già qui, a poco più di 700 metri di altitudine, chissà cosa potrebbe succedere sul Selvino?
Ma prima di tutto c’è da affrontare una lunga discesa, quasi 8 chilometri, con pochissime curve e tanti lunghi rettilinei. In qualsiasi altra occasione, questo sarebbe il momento più agognato della giornata, con la velocità che sale per darti quella lieve scarica di adrenalina e le gambe che possono finalmente riposare, ma oggi è la prima volta in tutta la mia vita che non vedo l’ora di ricominciare a salire.
Con grosse difficoltà, insieme a un nutrito gruppo di ciclisti, raggiungiamo il fondovalle che precede l’ultima ascesa. Molti sono in evidente difficoltà. Alcuni scelgono di fermarsi al bar per bere qualcosa di caldo, mentre altri decidono addirittura di tirare dritto verso Bergamo, senza affrontare l’ultima ascesa. Una scelta che ben presto sarà adottata dall’organizzazione stessa, che devierà i più attardati giù dalla val Seriana.




La tentazione di rientrare verso casa è forte, ma appena prima di approcciare la rotonda che segna l’inizio della scalata al Selvino, trovo un piccolo gruppo di persone che sta aspettando il passaggio di qualche amico e che ci grida di non mollare. Sembra una cosa da poco, ma quando sono in difficoltà questi piccoli gesti di solidarietà mi fanno tremare dall’emozione e mi consentono di trovare energie insperate.
Come per la salita del colle Gallo, anche i primi chilometri del Selvino sono tutt’altro che problematici. La velocità ridotta dalla pendenza e lo sforzo per contrastare la forza di gravità consentono di ristabilire il calore corporeo necessario. Tuttavia, giunti a metà dei 19 tornanti che portano alla vetta, la pioggia inizia lentamente a trasformarsi in un nevischio che si fa sempre più fitto, fino a diventare una vera e propria bufera. Non avevo mai pedalato con la neve e, inizialmente, trovo la cosa piuttosto affascinante. I grossi fiocchi bianchi, infatti, riempiono il paesaggio offrendo un colpo d’occhio unico, mentre tutto sembra più ovattato, come sospeso in un silenzio onirico.
Ma come accade nei sogni più strani, il risveglio è sempre brusco e traumatico. Quando mi accingo a iniziare la discesa, infatti, la neve sta piano piando attecchendo a bordo strada. L’aria è gelida e l’asfalto estremamente scivoloso. Dopo nemmeno un chilometro scorgo un’ambulanza intenta a distribuire bevande calde e prestare soccorso ai concorrenti più in difficoltà. Non mi fermo. Se lo facessi non sarei più in grado di ripartire. Mi concentro solamente sul cercare di scendere il più piano possibile. Il corpo è completamente irrigidito dal freddo. So di avere le mani sui freni – le vedo attorcigliate alle leve intente a fare il possibile per tenere la velocità controllata, ma è tutta una questione di cieca fiducia. Non riesco assolutamente a sentirle. Quando raggiungo finalmente la val Brembana e la strada torna a farsi pianeggiante, posso finalmente tirare un sospiro di sollievo: a questo punto raggiungere il traguardo è una mera formalità.
All’arrivo trovo Matteo insieme al Maury, un personaggio meraviglioso di cui vi ho già parlato su queste pagine, intenti ad aspettarmi. Il primo, come prevedibile, aveva chiuso la sua avventura almeno mezz’ora prima, mentre il secondo era venuto appositamente da Milano per complimentarsi per il coraggio dimostrato in questa assurda giornata. Ci guardiamo negli occhi senza dirci nulla – in questi casi non servono parole – e iniziamo subito ad abbracciarci. Pochi secondi di grande intensità che mi distolgono dai pensieri che per tutti gli ultimi chilometri continuavano a ronzarmi nella mente. Anche questa volta, infatti, le cose sono andate bene per me, ma per molti altri – si parla di circa 50 persone soccorse per ipotermia – la situazione ha preso una piega piuttosto spiacevole: qual è il confine tra audacia e follia?
