MI-GE-TO-MI: un confuso racconto della mia prima randonnée da 600 km.

Ho aspettato qualche giorno prima di iniziare a scrivere questo racconto. Giusto il tempo di far placare il mal di gambe e provare, senza troppo successo, a far riassorbire il formicolio alle dita dei piedi. E pensare che mentre mi accingo a scrivere, alcuni dei miei compagni di avventura stanno partendo nuovamente per qualcosa di ancora più grande – la TransAlp – dimostrandomi sempre di più che in questo sport i limiti fisici e mentali non esistono.

Sono qui alla scrivania, con in sottofondo My Favourite Things di Jonh Coltrane e un buon bicchiere di vino rosso, a cercare di riavvolgere il nastro della Milano Genova Torino Milano, rimettendo in fila i pensieri e, soprattutto, le tante emozioni provate lungo il percorso. Eppure, mentre il sax continua nel suo ritmo leggero e al contempo incessante, mi accorgo di quanto questo resoconto sia del tutto ardito. Saranno state le oltre 37 ore in bicicletta caratterizzate da almeno 25 ore di pioggia ininterrotta, il freddo della notte, gli abiti poco tecnici, l’impossibilità di fermarmi a dormire al dormitorio, le diverse forature, la partenza in ritardo o la strada più volte sbagliata, ma la mia mente è completamente bloccata, come se fosse appena uscita da quel fenomeno che gli psicologi chiamano processo di rimozione.

Per diversi giorni, infatti, sono rimasto qui a casa un po’ frastornato con un solo unico chiaro ricordo nella testa: l’arrivo sotto il tendone di Castano Primo. Sono le ore 23.00. Mentre mangio un’ottima pasta e fagioli offerta dall’organizzazione, guardo negli occhi i miei compagni di avventura e con voce ferma sentenzio: “wow, ho terminato la mia prima e DECISAMENTE ultima randonnée su questo tipo di distanza”.

Ma per fortuna il tempo restituisce la giusta dimensione alle cose e, un po’ come un quadro restaurato, con il passare dei giorni affiorano colori e sfumature meravigliose, che la polvere della stanchezza avevano maleficamente nascosto ai tuoi occhi. E così, dopo qualche giorno, ma soprattutto dopo aver letto il bellissimo resoconto di Matteo Grioni, che i ricordi e la voglia di ripartire per altre avventure fanno nuovamente capolino. Perché si sa, nonostante le difficoltà, chi partecipa a una randonnée ne rimane per sempre segnato nel profondo. Pedalare per così tante ore, spesso avvolti dal silenzio della notte, è l’espressione massima di libertà. Una sfida individuale – perché nessuno potrà mai pedalare al posto tuo – ma al contempo estremamente collettiva.

E man mano che i ricordi tornano a riaffiorare, prendi in mano il tuo calice di rosso e brindi al traguardo raggiunto, alla maglia della nazionale conquistata e al pass maturato per la Parigi Brest Parigi. Ma poi ci ripensi bene: questi sono solo dei meri aspetti materiali. Riprendi, allora, fiato e alzi nuovamente il tuo bicchiere in onore di quello che conta veramente. I tanti sorrisi scambiati con i tuoi sodali, in primis Matteo, Mattia, Eraldo, Marco, Dafne e Fabrizio, con cui hai condiviso lunghi tratti di percorso, le nuove amicizie fatte lungo la strada, gli incoraggiamenti collettivi e i racconti dei più esperti. Rivivi i paesaggi attraversati, l’azzurro del mare, la bellezza della notte nel cuore degli appennini, contornata solamente dal fruscio delle tue ruote e il passo spaventato degli animali selvatici che scappano al tuo passaggio, il sole che improvvisamente ha fatto capolino sulle colline del Monferrato, il tramonto sulle risaie padane. Ti commuovi, quando ricordi di quel momento di crisi nera che ti ha colpito poco prima di raggiungere il punto di ristoro di Cairo Montenotte e che sei riuscito a superare anche grazie a quei ragazzini che a bordo strada nel cuore della notte ti hanno approcciato per darti il cinque. Ripensi a quando appena dopo un terribile strappo in zona Moncalieri, incontri Michelangelo che ti dice “ma tu sei i Dannati del Pedale?”, alla genialità dell’uomo medusa o a quanto deve essere forte quel ciclista che ha affrontato tutti questi folli seicento chilometri con una bici pieghevole.

Pedalando questa mia prima randonnée da 600km ho capito che per affrontare lunghe distanze non serve avere gambe forti e un allenamento perfetto. È tutta questione di set up, abbigliamento corretto e di capacità di affrontare gli imprevisti e di gestire gli inevitabili momenti di crisi. Una randonnée, infatti, è l’elogio della pazienza. Un sottile galleggiare tra le emozioni, come un equilibrista, al fine di affrontare con calma un problema alla volta, senza mai farsi prendere dall’entusiasmo o farsi travolgere dallo sconforto.

E, infatti, i momenti di difficoltà non sono certo mancati. A partire dall’avvicinamento a questo appuntamento che, come da tradizione in questa stagione, non è stato dei migliori. Pochissimo allenamento (ormai diventata una costante), la solita propensione a farsi trascinare nel buco nero delle relazioni tossiche e un pizzico di tensione per la distanza mai tentata prima e per il ricordo del fallimento dello scorso anno, quando per ben tre volte, ho dovuto rinunciare a partire per il brevetto da 600 km.  

Come se non bastasse al parcheggio di Castano Primo, poco prima del ritiro della carta di viaggio, mi sono accorto di aver lasciato lo zaino con i vestiti e i viveri a casa. Fortunatamente avevo deciso di arrivare sul posto con un certo anticipo, così da potermi preparare con calma e incolonnarmi alla partenza tra i primi. Invece, tra le imprecazioni più variegate, mi sono ritrovato a correre in autostrada – 45 minuti ad andare e 45 minuti a tornare – per poi giungere alla partenza all’ultimo istante, costretto fin da subito a inseguire, per non rimanere indietro già dai primi chilometri.

Ma quando senti il click dell’attacco che si chiude e dai forza alle gambe per produrre la prima di un’infinità di pedalate che ti porteranno a percorrere questa enorme distanza non puoi fare altro che lasciarti tutto alle spalle. Una volta partiti, infatti, non c’è spazio per i pensieri e per le paure. Come racconta Tim Krabbé nel suo romanzo La Corsa, “ciò che passa per la testa di un ciclista è una sorta di sfera monolitica, la cui pressoché totale mancanza di asperità impedisce anche al più semplice dei pensieri di entrare in circolo”.

Però, se la testa è immersa in mille sensazioni contrastanti tanto da renderla un “monolite”, l’unico modo per andare avanti è quello di farsi trasportare dalle persone che ti stanno accanto e dal loro bagaglio di esperienze. E così, dopo i primi chilometri di inseguimento, mentre il cielo sopra di noi è plumbeo e la pioggia continua a battere in testa, i racconti di Matteo e Mattia sulle loro infinite avventure alla Parigi Brest Parigi hanno illuminato la giornata, aiutandomi a focalizzare in pieno l’obiettivo.

Devo, infatti, dire grazie ai loro racconti se ho deciso di non mollare, anche quando dopo quasi 300 chilometri, tutti sotto l’acqua, ho avuto una profonda crisi di freddo nel cuore della notte, tanto da far fatica a mangiare una volta arrivato al ristoro, o quando superata la crisi ho bucato in cima a una salita, ricominciando così a tremare fino a giungere al dormitorio, ormai troppo tardi per provare a riposare.

Si potrebbe andare avanti all’infinito nel raccontare aneddoti ed emozioni raccolte lungo questi 600 chilometri tra la pianura Padana, l’entroterra Ligure e le colline del Monferrato, ma ora si è fatto tardi e il vino nel bicchiere è finito. Mi rendo conto, tuttavia, che anche a distanza di un paio di settimane da questa difficile avventura, questo racconto appare ancora decisamente nebuloso. Fisicamente provo ancora una certa insensibilità agli alluci e psicologicamente ricordo perfettamente i momenti di grande difficoltà affrontati in quella fredda due giorni di fine maggio. Eppure, non riesco a spiegarmi il perché, non veda l’ora di ripartire verso nuove avventure, questa volta con finalmente indosso la maglia della nazionale italiana ARI appena conquistata.

2 pensieri riguardo “MI-GE-TO-MI: un confuso racconto della mia prima randonnée da 600 km.”

  1. Complimenti per il tuo brevetto, la conquista della maglia delka nazionale e la tua prossima partecipazione alla PBP. Per chi ama le randonnée la questione è sempre quella che tu magistralmente descrivi: perché sottoporsi a qualcosa che appare folle e innaturale, soffrire per tanti km e tante ore, ma una volta terminato, desiderare rivivere quelle sensazioni e proiettarsi già con la mente nella prossima avventura in bici! Ho riconosciuto Dafne nelle tue foto, e questo mi ha fatto pensare come il “popolo delle randonnée” può essere considerato un’unica, grande famiglia, senza confini, in cui a poco a poco si arriva a conoscersi tutti. È emozionante. Spero di riprendere presto anche io a fare le mie amate randonnée, dopo un anno di assenza. La PBP resta un sogno che non so se riuscirò mai a realizzare….ma intanto si pedala! In bocca al lupo!

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  2. Caro Umberto intanto bravo e grazie; perché ogni volta che condividi una tua esperienza in bici riesci sempre, a mio parere, a non essere didascalico ma ad affiancare e talvolta a far prevalere il racconto emotivo cosa non banale perché sarebbe facile, in 600 km di pedalata, perdersi in aneddoti “tecnici” o semplicemente in: “consigli per gli acquisti”.
    Invece è bel modo per raccontare un pezzo della tua persona.
    Dopodiché ho davvero tirato un sospiro di sollievo quando ho capito che NON eri intenzionato ad appendere la Bianchi al chiodo long time ma come tu stesso hai detto esperienza forte = emozioni forti… egoisticamente parlando un’altra Milano/Sanremo con una sequenza di sfighe logistiche e personali non posso che pensare di riviverla con te !
    Avanti tutta !

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