La famiglia dei Dannati del Pedale si allarga. Con grande piacere, infatti, riceviamo e pubblichiamo il racconto di Emanuele Pizzato, che da alcuni anni continua a macinare instancabilmente chilometri in sella alla sua Poderosa e oggi ci racconta della prima Fléche National che si è svolta nel weekend di Pasqua.
Partecipare alla prima Flèche italiana per far parte della storia di A.R.I. (sembra che io stia cercando a tutti i costi un modo per essere ricordato). Facile entrare nella storia così, eravamo in poco più di 100 ciclisti, suddivisi in 25 squadre e sarebbe stato sufficiente pedalare per 360 chilometri in 24 ore.
Ma la Flèche è ben altro, non proprio una competizione, ma piuttosto una opportunità offerta al randonneur di riflessione su randagismo e di apertura alla condivisione della fatica e delle emozioni del viaggio (almeno nelle intenzioni degli ideatori). Perché il randagio è un solitario. Quando si pedala per ore, o per giorni nelle over 1200, è quasi impossibile avere le stesse esigenze dei compagni e, soprattutto, nello stesso momento.
Per evitare tensioni, molti preferiscono affrontare in solitaria l’impresa, salvo accodarsi per qualche ora ad altri randonneur incontrati lungo il percorso. Qualcuno può non dormire per 48 ore, altri – come me – devono assolutamente dormire almeno 15 minuti ogni tanto; qualcuno mangia pochissimo e altri – come me – hanno continuamente fame.
Gli ideatori della Fléche conoscevano perfettamente l’indole solitaria del randagio e hanno tentato di stemperarla proponendo questa strana formula, nata nel 1947 in Francia, per iniziativa Audax Club Parisien, che all’epoca prevedeva la partenza da Parigi a squadre composte da un minimo di 3 a un massimo di 5 ciclisti, tradizionalmente il venerdì prima di Pasqua, con l’obiettivo di compiere il maggior numero di chilometri possibile in 24 ore, puntando verso un punto di incontro in Provenza, per scambiarsi gli auguri.
Con il trascorrere degli anni si è rinunciato alla partenza comune da Parigi, perché la Provenza era troppo distante per essere raggiunta in 24 ore (salvo per ciclisti di alto livello), per consentire invece a ciascuna squadra di scegliere il punto di partenza e il percorso in totale autonomia, mantenendo sempre il traguardo in Provenza.
La filosofia della Fléche è sempre stata quella della condivisione e della creazione di amicizie durature attraverso l’imposizione ai randagi della partecipazione in squadra.




In Francia questa formula prende il nome di Fléche Vèlocio, mentre all’estero – sempre sotto il patrocinio di ACP e delle singole costole nazionali – quello di Fléche National. Il 29 marzo 2024 si è tenuta in Italia la prima Fléche National, denominata “La Florence”, organizzata dalla Polisportiva Casellina e, in particolare, dall’amico Donato Agostini, con arrivo a Firenze in piazzale Michelangelo. Noi quattro non potevamo mancare.
Io, Matteo, Beppe e Stefano, la squadra di Varese, amici da anni, con partenza dalla “città giardino” alle ore 8.00, ovviamente sotto il diluvio universale. Per noi non è un problema pedalare insieme, lo facciamo da anni, siamo sempre in sintonia, ci divertiamo parecchio. Questa volta ci siamo divertiti un po’ meno, almeno all’inizio. Per tre ore consecutive abbiamo preso acqua, fiumi di acqua, fino a Milano. Lungo la strada nessuno ha fiatato; pedalare sotto la pioggia battente, con temperature invernali, è tra le esperienze più provanti per il randagio, perché la temperatura corporea scende drasticamente, non ci si può alimentare (le barrette e i gel non si riescono a prendere dalle tasche perché si rischia di cadere) e non ci si può fermare, altrimenti si congela e non si riparte più.
Avremmo pagato quelle ore iniziali sotto l’acqua, complice anche la scelta “a casaccio” del percorso, con gli Appennini da affrontare di notte e la sconosciuta salita di “Poggiolo Salaiole” (ricordate questa località e evitate la salita, non è per esseri umani e neppure per le auto).
Dopo due ore di quella agonia, poco prima di Milano, ho sentito Matteo dire “se continua così dovremo abbandonare”. Nessuno ha pensato di abbandonare, neppure per un secondo, e nemmeno Matteo, ma lui aveva bisogno di sentirsi dire da noi che la pioggia sarebbe cessata a breve. E così è stato.
Sul percorso, fino a Imola, c’è poco da raccontare: l’infinita e noiosa (per il ciclista) pianura, oltre 300 chilometri, quasi tutti di via Emilia. Ciò che ricorderò sempre è invece la bellezza delle città di notte, raggiungerle in bici, col buio, attraversarle lentamente e sdraiarsi a riposare nella piazza centrale. Questo mi è mancato alla Parigi Brest Parigi: il percorso francese è quasi sempre in mezzo al nulla. Poter scegliere la traccia in autonomia è il valore aggiunto delle Fléche, a mio parere, perché permette di costruire l’itinerario per adattarlo alla propria idea di ciclismo, alle proprie esigenze.
La Fléche, così, può essere per alcuni una gara in linea, una strana cronometro di squadra, per altri cicloturismo un po’ estremo, per altri ancora – come lo è per me – una delle declinazione del viaggio, perché, come scrisse Théodore Monod, “nel viaggio c’è un certo sapore di libertà, di semplicità …
un certo fascino dell’orizzonte senza limiti, del percorso senza ritorno, della notte senza tetto, della vita senza superfluo.”
Il viaggio in bici è assenza del superfluo, è semplicità, è libertà e, nella formula Fléche, diventa anche condivisione delle sensazioni con i compagni di avventura. Il senso di libertà diventa assoluto durante la notte, le strade sono deserte – soprattutto se decidi, come noi, di conquistare un passo dell’Appennino – e tutto scorre in silenzio. La notte è del randagio.
A me piace tracciare i percorsi così, senza studiare prima le salite, perché l’inconsapevolezza di ciò che troverò mantiene intatta la curiosità ad ogni curva. Noi iniziamo gli Appennini da Imola, alle 2 del mattino, dopo 320 chilometri. La prima salita – e la prima discesa – di 7 chilometri, con una nebbia impenetrabile, come ho visto nel Varesotto solo negli anni 90 (ora è assai rara).
In discesa non si vede nulla, strade senza segnaletica, spesso dissestate. Siamo degli incoscienti a proseguire in quelle condizioni. Se da giovani si è incoscienti perché ci si sente immortali, quando superi i 50 anni torni ad esserlo perché senti di non averne altri 50 a disposizione. Ma d’altronde senza un po’ di incoscienza non si farebbero cose memorabili.
E poi arriva la mia solita crisi di sonno, alle 4 del mattino, poco prima dell’inizio della salita del passo della Sambuca, 10 chilometri duri. Matteo, Stefano e Beppe lo sanno: quando mi prende il sonno devo assolutamente dormire 15 minuti, quindi ci fermiamo, la temperatura è invernale (tre gradi), io mi stendo a terra con la copertina di emergenza. Adoro la copertina di emergenza: rende ogni impresa possibile (almeno nella mia testa); con lei la notte, il freddo e il sonno si possono superare, mi sento come se mi donasse super poteri.
Dopo 15 minuti Matteo mi sveglia, si riparte. Ho fame, non ho mangiato a sufficienza, sugli Appennini di notte non c’è possibilità di acquistare cibo. E questa leggerezza la pago subito. Al quinto chilometro della salita mi spengo, crisi di fame, non vado più avanti; ne mancano altri cinque, parecchio duri. Gli altri vanno e io rimango solo. Meglio così, nessuno ti può aiutare quando sei finito, devi uscirne da solo, trascinarti in vetta, dove gli amici ti aspettano. Perché gli amici non vengono in tuo soccorso, sarebbe peggio.
Mangio 20 caramelle in un boccone, scendo più volte dalla bici ma arrivo in cima alla Sambuca. Loro mi aspettano tranquilli, senza sbuffare, siamo la squadra di Varese, si arriva in quattro a Firenze.
L’alba arriva poco prima della vetta, una vista magnifica, ti senti in cima al mondo, pedali e sei finito, poi provi quella sensazione. Sulla Sambuca raggiungiamo i 360 chilometri: Fléche conquistata. Ora possiamo pedalare verso Firenze senza assillo, se non fosse per la salita di Poggiolo Salaiole: maledetta salita, più di un chilometro con pendenze sempre vicine al venti per cento, e di nuovo giù dalla bici, imprecando. Non ricordo di essermi arreso su una salita prima di allora, non sono mai sceso dalla bici prima di allora.
Ricorderò così la Fléche di Firenze: la meraviglia delle città di notte, la sensazione di sconforto sul passo della Sambuca e su Poggiolo Salaiole, la copertina di emergenza, l’alba in vetta, la colazione con tre brioches e un cappuccino a Borgo San Lorenzo, gli amici che mi aspettano, Matteo che mi porge una barretta in cima alla Sambuca, Beppe con le luci scariche già a mezzanotte, Stefano che ripete “avremmo dovuto evitare il centro di Milano”, il sole in piazzale Michelangelo.
Alla prossima Fléche, al prossimo viaggio, all’assenza del superfluo.
