Le 10 lezioni che ho imparato pedalando tra Fiandre, Ardenne e Roubaix.

Sono appena tornato da una vacanza in bicicletta di otto giorni tra le pianure sconfinate e le strade in pavé che contraddistinguono la Francia settentrionale, le dune sabbiose su cui si staglia il Mare del Nord, le pietre e i muri delle Fiandre, i castelli e le infinite coté che caratterizzano la zona delle Ardenne.

L’idea da cui è originata questa vacanza è stata quella di pedalare sui percorsi di tre classiche Monumento che caratterizzano il calendario ciclistico professionistico internazionale: la Parigi Roubaix, il Giro delle Fiandre, la Liegi Bastogne Liegi, con una piccola deviazione sul muro di Huy, perché, pur non essendo parte della classicissima delle Ardenne, è pur sempre un passaggio iconico e imprescindibile.

Sono partito dall’aeroporto di Bergamo all’alba di sabato 15 giugno con destinazione Charleroi. Tre le mete da raggiungere in bikepacking con il supporto all’occorrenza del treno – Valenciennes, Oudenaarde e Liegi – dalle quali sarei ripartito il giorno successivo per affrontare in modalità più leggera i percorsi che caratterizzano le tre Monumento sopracitate. Oltre a questo, mi sono concesso una piccola deviazione sulla costa fiamminga e un passaggio a Bruxelles per incontrare Francesco, un caro amico dell’università, che ha voluto omaggiarmi con una bonus ride serale sulle colline attorno alla capitale belga. Per chi fosse interessato ad approfondire o stesse pensando di replicare un’analoga esperienza, le tracce GPX sono disponibili su STRAVA o su richiesta via Social.

È stata una “Campagna del Nord” sicuramente molto intensa. Un’avventura su due ruote che mi ha visto pedalare su muri al 18% e su ogni tipo di superfice – pavé, ciottolato fine, lastroni di cemento, asfalto, sterrato e persino qualche tratto sulla sabbia – e che mi ha fatto scoprire un territorio davvero diversificato, spesso sperduto e sicuramente molto affascinate. Una vacanza caratterizzata dallo scorrere della birra, ma anche un’esperienza ciclistica che potrei definire “della maturità” in quanto, come non mai, ho dovuto far ricorso a tanta pazienza e una certa dose di flessibilità per riuscire a superare condizioni meteorologiche a tratti molto difficili e risolvere diversi inconvenienti tecnici.

Ed è proprio per questo motivo che al posto del classico racconto di viaggio ho deciso di mettere in fila i pensieri e astrarre le 10 lezioni che ho imparato in questi intensissimi otto giorni in bicicletta.

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In bici all’aeroporto di Bergamo: si può fare!

Oggi voglio condividere pubblicamente una esperienza positiva che mi è capitata di recente. Nei giorni scorsi avrei dovuto prendere un aereo alle 8.00 da Bergamo. Abitando appena fuori Milano, avevo pianificato di raggiungere l’aeroporto in macchina, in quanto da casa  i mezzi che mi collegano ad Orio al Serio non sono propriamente comodi, specialmente di mattina presto. La sfiga, tuttavia, si è messa di mezzo e il pomeriggio della vigilia il cambio della mia vecchia Mitsubishi Colt, compagna di mille avventure, ha deciso di bloccarsi definitivamente sulla retromarcia. Iattura infinita.

Davanti a me avevo solamente due opzioni: fare una levataccia e prendere i mezzi pubblici o tentare un’operazione circense, guidando all’indietro per tutti i 60 chilometri che mi separano dall’aeroporto. Devo ammettere che ero decisamente preso dallo sconforto. Poi, dopo un bicchiere di vino, mi è venuta l’idea: “ci vado in bici. Sarà comunque una levataccia, ma almeno mi diverto… e poi, facendo un calcolo spannometrico, dovrei metterci giusto mezz’ora in più che con i mezzi”.

Con il passare dell’effetto inebriante del Vermentino, i dubbi e le perplessità hanno iniziato ad addensarsi inesorabilmente nella mia testa. La partenza alle 5 con il buio, il rischio di forare o di avere qualche inconveniente meccanico che mi facesse perdere tempo, le strade trafficate del mattino. Ma soprattutto, quello che mi preoccupava maggiormente era la sicurezza della bici, che sarebbe rimasta due giorni ferma davanti al terminal bergamasco.

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Il derby europeo di cui Milano ha davvero bisogno

Con il passaggio del turno del Milan sul Napoli e dell’Inter sul Benfica, il 2023 regala alla città di Milano il titolo indiscusso di capitale Europea del calcio. Il 10 e il 16 maggio, infatti, il capoluogo lombardo sarà il teatro di un derby storico valevole per l’accesso in finale di Champions League.

A poche ore dalla qualificazione di entrambe le squadre meneghine, con la città ancora in festa per questo traguardo, tuttavia, all’ombra della Madonnina si è consumata l’ennesima tragedia stradale. Questa volta a farne le spese è una giovane donna di 39 anni, travolta in centro da un uomo alla guida di una betoniera. Si tratta della settima persona investita e tragicamente deceduta da inizio anno: un dato agghiacciante per una città che ambisce ad essere una capitale europea.

Nonostante la politica locale si riempia la bocca con la sostenibilità ambientale e con i proclami a favore della ciclabilità, questi terribili fatti di cronaca sono solo la punta dell’iceberg di una città che è ancora lontana dall’essere a misura d’uomo e di bicicletta.

Prima ancora che politico viviamo sulla nostra pelle un enorme problema culturale. Il una città resa invivibile da un modello economico frenetico e da una viabilità auto-centrica del tutto insostenibile, le persone tendono a sfogare la propria frustrazione dopo ore di incolonnamento in macchina su noi ciclisti. Senza scomodare i post di odio che si vedono sui social, chiunque abbia mai pedalato può testimoniare sulle continue manifestazioni di intolleranza ricevute da parte di una consistente parte della popolazione che dall’alto del proprio veicolo si sente del tutto padrona della strada. Colpi di clacson ingiustificati, inviti a spostarsi sui marciapiedi, insulti di varia natura, gesti di sfida, sono una triste realtà per chi percorre su due ruote le strade meneghine.

E quando non siamo vittime di intolleranza è il senso di invisibilità che contraddistingue le nostre pedalate. Perché per quanto possiamo indossare abiti sgargianti, installare luci potenti, guidare con estrema prudenza, quante volte durante le nostre pedalate capita di vedersi tagliare la strada, negare una precedenza o vedersi aprire uno sportello in faccia e notare che l’automobilista in questione non si sia minimamente accorto della nostra presenza?

Ovviamente anche la politica in tutto questo deve assumersi un ruolo importante per contribuire a fermare le stragi sulle nostre strade. Proprio due giorni prima dell’ultimo tragico incidente, centinaia di cittadini si sono radunati sotto palazzo Marino per chiedere una città “in cui si può scegliere di andare al lavoro o a scuola con il mezzo che si vuole, senza aver paura di non tornare a casa. Una città in cui muoversi è sicuro a tutte le età e per persone di qualunque abilità”.

Una manifestazione partecipata e colorata che chiedeva all’amministrazione comunale alcune cose molto chiare come la creazione di una rete di ciclabili d’emergenza per diminuire la pressione del traffico automobilistico, dando anche una risposta efficace al problema della qualità dell’aria in città; l’introduzione di almeno una “domenica a piedi” al mese; la presentazione di un piano operativo per fare di Milano una città a 30 km/h, includendo il contrasto radicale alla sosta irregolare, la pedonalizzazione delle strade davanti a ogni scuola e il rafforzamento a tutte le ore del trasporto pubblico.

Dopo l’ennesima tragedia della strada e all’alba dell’imminente derby di Champions League, penso che questi temi rappresentino la vera partita che Milano necessita di giocare per diventare una capitale europea non solo nel mondo del calcio: una partita estremamente complicata che dobbiamo assolutamente vincere tutti insieme per impedire altre morti sulla strada e trasformare la nostra città in un luogo accogliente per tutti.

È ora di rompere il silenzio

Quando ho dato vita a questo blog ho pensato anche a lui, Davide Rebellin, 51 anni, spinto da una passione talmente grande da diventare una vera dannazione. Una vocazione verso la bicicletta che non può essere spiegata con la lente di ingrandimento della fredda razionalità. Una passione oltre il senso comune, così travolgente da imporgli una vita di sacrificio e impegno per continuare stagione dopo stagione a pedalare nel gruppo, lottando con la stessa grinta di quando era ragazzino in mezzo ad atleti di trent’anni più giovani. Un esempio per tutti. Un inno alla Bellezza irrazionale di questo sport.

In queste poche righe sarebbe irrispettoso avere la pretesa di rendere omaggio a un campione nella vita, ancor prima che nello sport, il cui destino beffardo ha negato il diritto a vivere finalmente la sua passione in maniera più rilassata.

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Pedalando in Francia e in Spagna: mondi paralleli dove il rispetto del ciclista è una cosa seria

Noi italiani, si sa, non amiamo particolarmente i francesi. Non si tratta solo di una sana rivalità sportiva, la nostra diffidenza è spesso alimentata da questioni socio-culturali. Dopotutto come potrebbe essere il contrario quando vedi con i tuoi occhi certe aberrazioni? Penso al mio ultimo viaggio da Torino a La Coruña dove ho avuto modo di ammirare i nostri cugini d’Oltralpe mangiare delle tagliatelle alla carbonara da far rabbrividire persino lo chef Ruffi.

Immaginatevi un bel piatto di portata con al centro dell’abbondante pasta incollata su sé stessa, accompagnata con un sugo pallido e sottile a base di panna e pancetta. Per completare l’orrore, immaginate che a lato del piatto vengano consegnati al malcapitato avventore due piccoli contenitori: dell’emmental tritato grossolanamente e – incredibile ma vero – un tuorlo d’uovo crudo pronto per essere tuffato nell’intruglio appena servito. Di fronte a questa immagine non penso serva essere romani per gridare al crimine contro l’umanità.

Eppure, nonostante il nostro odio viscerale acuito da un certo integralismo enogastronomico, se parliamo di bicicletta e nello specifico di ciclabilità, ci tocca ammettere tristemente che i francesi sono di un altro pianeta.

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