Decisi di provare a scalare l’Angliru nella tredicesima tappa del mio viaggio in bikepacking da Torino a La Coruña e devo ammettere che mai idea fu più inopportuna. Una scelta probabilmente peggiore di quella volta in cui Gi stava ospitando a casa due giovani studentesse cinesi e noi, convinti di fare omaggio alla rivoluzione culturale, ci presentammo a cena vestiti in pashmina. In quell’occasione, Jacopo, appena servito l’arrosto, tirò fuori dalla tasca il libretto rosso di Mao e, alzandosi in piedi, iniziò a recitare con voce solenne: “il nucleo dirigente della nostra causa è il Partito Comunista cinese. La base teorica che guida il nostro pensiero è il marxismo-leninismo”. Passarono solo pochi secondi prima che la voce ferma di Mei, la ragazza dallo sguardo più carino, interruppe bruscamente le prescrizioni del Grande Timoniere. “Dalle nostre parti non siamo soliti scherzare su queste cose!”. La serata era ormai compromessa: ci mettemmo più di mezz’ora prima di rompere nuovamente il silenzio imbarazzante che si era creato.
Nonostante questa storia possa sembrare assurda, l’aver deviato di oltre 100 chilometri per andare a pedalare sulle folli rampe dell’Angliru, con la pioggia che incombeva minacciosa e quasi alla fine di un viaggio che mi aveva già visto percorrere milleottocento chilometri e ventimila metri di dislivello, non si è rivelata una scelta meno inopportuna del nostro comportamento di quella strana serata di ormai 15 anni fa.
L’Angliru, infatti, è una montagna solitaria nel cuore delle Asturie, una vetta temibile e spaventosa come il Monte Fato nella terra di Mordor, una landa silenziosa spesso avvolta da una fitta coltre di nebbia.
Nonostante ciò, rispetto alle tante vette affrontate lungo il mio viaggio, l’Angliru è certamente quella meno imponente. La sua cima, infatti, è posta a quota 1573 metri sul livello del mare e la sua ascesa misura appena 12,5 chilometri. Eppure, proprio come avviene nel mondo animale, dove il Guinness del mammifero più aggressivo non appartiene a un gigante come la tigre, bensì al piccolo tasso del miele, un animaletto minuto e tozzo simile a una puzzola, così, il modesto Angliru sovrasta tutti i suoi colleghi alpini per brutalità. Stiamo, infatti, parlando di una salita dalla pendenza media che supera di poco il 10%, divisa in due parti. I primi sei chilometri sono piuttosto pedalabili, mentre la seconda parte presenta una pendenza media del 13% e punte che superano il 23%: una sorta di Muro di Sormano lungo sei chilometri.
Inizialmente, questa salita non era inclusa nel mio itinerario di viaggio. Dopo Moncenisio, Galibier, Izoard e Mont Ventoux, avrei dovuto raggiungere i Pirenei e successivamente attraversare la penisola Iberica lungo costa. Ma dopo aver dovuto rinunciare alla vetta del Tourmalet per via di condizioni meteo proibitive, nella mia testa continuava a frullare l’idea di dover rimediare con una nuova sfida. Dopo giorni a rimuginare sul da farsi, decisi che “l’esame di riparazione” avrebbe avuto luogo sulle rampe dell’Angliru come tributo a una delle vette più iconiche della Vuelta.
Contrariamente ai passi alpini, però, la durezza del Mostro Asturiano mi imponeva di liberarmi dei pesanti bagagli prima di tentare la scalata. Decisi di partire da Ribadersela, lungo la costa atlantica, deviare all’interno per la Carretera National Cantabrica N 634, giungere dopo circa 85 chilometri a Oviedo, passare rapidamente in ostello per alleggerire il più possibile la mia bici e raggiungere, infine, Riosa dove sarebbe iniziata la temibile scalata. Una tappa complessivamente da 151 chilometri per 2441 metri di dislivello.
Quando arrivai a Riosa erano ormai le quattro del pomeriggio e il cielo si faceva sempre più plumbeo. Anche nella migliore delle ipotesi non sarei stato di ritorno prima delle 20 e molto probabilmente avrei dovuto fare i conti con la pioggia. La tentazione di rinunciare era davvero tanta, ma il ritrovarsi dopo diversi giorni a pedalare leggero senza peso dei bagagli, su un tratto di strada non poi così difficile, mi trasse decisamente in inganno.
L’idillio, però, si interruppe dopo appena cinque chilometri. All’altezza di Viaparà, infatti, la lingua di asfalto si restringe drasticamente e poco dopo un piccolo tratto in falsopiano iniziano le prime rampe oltre il 20%. Fu proprio in quell’istante che il verde dei campi lasciò il posto a una fitta nebbia in grado di assorbire anche ogni suono circostante. Un cartello con scritto “Bienvenido en paradiso” faceva da contraltare al buio e al silenzio totale nel quale ero appena entrato. Lungo la salita si intravvedeva soltanto la mia bici e un paio di pastori che, con le loro mucche che pascolavano in mezzo alla strada, mi guardavano come se fossi un alieno.
Dopo i primi due tornati micidiali, la strada fortunatamente torna a farsi più leggera. Guardai il computerino che indicava implacabile il 13 percento di pendenza. Una coltellata nelle gambe, se fossimo su una salita normale, mentre qui, lungo questa sorta di mulattiera asfaltata, quella pendenza a doppia cifra appariva come un incredibile momento di sollievo.
Mi fermai con la scusa di fare una foto alla nebbia, ma in cuor mio sapevo che era solo un modo per riprendere fiato. Pensai a “El Chava” Jiménez, che nel 1999 vinse per primo su questa montagna maledetta, proprio in una giornata plumbea come questa, o a Juan José Cobo Acebo che su questa salita sconfisse il Team Sky di Froome e Wiggins montando un 34×32. Lui campione con un rapportino da amatore e io ciclista della domenica che tentava di salire con un 34×28.
Ripresi a salire e proprio nel tratto più duro di Les Cabanes, una rampa con diversi tornati di 400 metri al 19% e con massime del 23%, accadde il miracolo. Senza alcun preavviso, mi ritrovai appena sopra le nuvole, con la nebbia che ora appariva come un soffice manto di cotone appena un paio di metri sotto la strada. Pensai che forse il cartello a inizio salita aveva ragione: “sono davvero in paradiso!”.
Ancora un chilometro durissimo e finalmente raggiunsi la vetta: un piccolo piazzale in cima a un belvedere con al centro una stele in onore dei grandi campioni che qui vinsero durante la Vuelta. Jiménez, Simoni, Heras, Contador, Cobo, Ellisonde e ancora una volta Alberto Contador. Manca solo la vittoria del 2020 di Hugh Charty, il cui nome non è stato ancora aggiunto. Pochi metri più a fianco, invece, un cartello di colore verde scuro che ancora adesso a riguardarlo in fotografia mi fa venire i brividi. “Alto del l’Angliru 12,5km. Altura 1573 m. Desnivel 1266m. Pendiente Media 10.13%. Pendiente Maxima 23,5%”.
Appena pochi minuti di contemplazione, giusto il tempo ripensare alla fatica appena conclusa e rivedere il cielo nuovamente chiudersi sopra alla mia testa, con i fulmini che incominciavano a lambire le vette rocciose. Era tempo di scendere, ma se la salita dell’Angliru rappresenta un mostro insormontabile, la discesa non è affatto meno spaventosa, specialmente dopo che le nubi avevano iniziato lentamente a scaricare tutta la loro umidità sulla stretta e pendente lingua di asfalto, con la nebbia che rendeva praticamente impossibile capire quali traiettorie fosse giusto percorrere.
Rientrai in ostello che erano quasi le 21 completamente fradicio. Da quel momento non smise praticamente mai di piovere fino all’ultima tappa.
Il giorno successivo, riguardando il meteo realizzai che senza passare dall’Angliru avrei potuto evitare il diluvio che seguì nei giorni successivi. Capii subito che deviare per il Mostro era stata davvero una scelta inopportuna, quasi come quella serata assurda di quindici anni fa. Eppure, devo ammettere che grazie a questa decisione apparentemente così folle e masochista ebbi la possibilità di pedalare nel silenzio assoluto del paradiso – solamente io con la mia bicicletta e una decina di mucche che mi guardavano con lo sguardo attonito – in alto quel tanto che basta: appena due metri sopra le nuvole.











Ma che bello questo articolo! bravisismo
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