Senza arrendersi alla ragione

La sindrome di Galois, così mi è stato detto in una piacevole sera di mezz’estate, è quella tendenza a procrastinare una certa azione fino all’ultimo istante per poi compiere uno sforzo immane e a tratti autolesionista per portarla a termine entro le scadenze prestabilite. Una gestione del tempo del tutto divergente con il ciclismo – sport meraviglioso e liberatorio – che richiede dedizione e costanza per essere praticato a un livello tale da non lasciare dolorosi rimpianti nei giorni successivi alle pedalate più esigenti.

Eppure, non c’è niente da fare. Nonostante continui a ripetermi i soliti buoni propositi, ogni anno tra ottobre e novembre mi ritrovo quotidianamente a fissare i rulli accanto alla poltrona, trovando sempre una buona scusa per rimandare l’inizio degli allenamenti o a passere le domeniche sotto le coperte promettendomi che la settimana successiva sarà quella buona per riprendere a macinare chilometri. Procrastinare, procrastinare, procrastinare!

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La mia prima notte in bici, pedalando da Milano a Siena

È da più di un mese che sono bloccato a casa. Febbre alta, continue ricadute e doppio ciclo di antibiotici. In altre parole, un inizio di stagione sempre in panchina e che dovrebbe indurmi a riflettere sull’inesorabile incedere dell’età. Tuttavia – come mi è stato fatto notare da chi mi conosce bene – mai come in questa occasione, tutto ciò è la risultante di una serie di scelte estremamente discutibili. Pedalare in Grecia, sotto un’insolita nevicata, per poi salire direttamente sull’aereo del ritorno, senza avere la reale possibilità di asciugarmi. Ammalarmi e andare comunque allo stadio sotto una pioggia battente. Prendermi una forte ricaduta e decidere di interrompere l’antibiotico anzitempo perché “è inaccettabile che le case farmaceutiche facciano confezioni da sei giorni quando il ciclo è di sette”. Forse non si tratta del mio fisico che sta chiedendomi una pausa, ma della mia testa che sta regredendo a uno stato adolescenziale. Effettivamente va detto che, proprio come per gli adolescenti, il mio cervello in questi giorni sta sfruttando questo riposo forzato per rimettere in moto i sogni e i grandi progetti. Così, mentre nella testa si addensano innumerevoli idee più o meno impraticabili, mi ritrovo a guardare vecchie foto e ripensare a quell’assurda pedalata da Milano a Siena dove tutto è cominciato.

Siamo nel marzo 2022. La Strade Bianche è passata da una settimana e la mia macchina si trova presso un carrozziere calabrese alle porte di Siena. L’ho abbandonata lì al termine della granfondo, con la frizione ormai distrutta. Per recuperarla mi è toccato acquistare un biglietto del treno e prendere ferie. “Certo che è proprio triste utilizzare un giorno di riposo unicamente per viaggiare, recuperare la macchina e guidare senza sosta verso casa” dico tra me e me. “Sarebbe proprio bello andarci in bici. Se solo Siena non fosse così maledettamente lontana!”.

Alla vigilia della partenza, scrocco un pranzo da mia madre e, quasi per scherzo, le espongo queste mie perplessità. Lei, da donna pragmatica del sud, è categorica: “Umberto, ma sei cretino? Se vai in bici perdi il biglietto del treno che hai già pagato!”

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Road to qualcosa…

Per le persone come me non è mai facile trovare le motivazioni per ripartire dopo aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato, pianificato e alla fine realizzato. Non si tratta solo del nomale appagamento che tende ad assopire – per fortuna solo temporaneamente – la nostra sete di avventure. La preparazione per arrivare pronti all’evento sognato da tempo, con i suoi costanti sforzi, la pianificazione attenta e le inevitabili paure, è indissolubilmente legata al traguardo che si vuole superare. Un percorso lungo e tortuoso che si riverbera in quell’attesa leopardiana, che per me rappresenta l’essenza stessa del piacere.

Passato il grande evento, tagliato il traguardo tanto agognato, tutto questo svanisce: si riparte nuovamente da zero. Occorre, allora, trovare nuovi modi per dare un senso alla fatica. Incanalare la propria passione per trovare l’ennesimo obiettivo che consenta di riuscire a superarsi. Più grande è il traguardo raggiunto, più difficile sarà trovare la forza per rimettersi in moto.

In quest’ottica, per me che fino a un paio di anni fa non avevo mai immaginato si potesse pedalare per più di 200 chilometri nella stessa giornata, l’aver tagliato il traguardo della Parigi Brest Parigi è stato un fattore completamente destabilizzante: un’emozione profonda che inevitabilmente ha lasciato un enorme vuoto dietro di sé.

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Né pazzi, né sconsiderati: perché partecipare alla Parigi Brest Parigi?

Per comprendere le ragioni che mi hanno spinto a partecipare alla Parigi Brest Parigi è necessario tornare indietro di tanti anni, quando ancora non conoscevo l’esistenza di questa manifestazione e quando il tuffo sul materasso era l’unico sport che praticavo.

È l’estate 2012. Mentre il caldo afoso dei pomeriggi bolognesi ti imprigiona sul divano ed è impossibile anche solo pensare di uscire di casa, alla televisione l’inconfondibile voce di Franco Bragagna ci racconta le imprese degli atleti italiani alle Olimpiadi di Londra. Come sempre quando sono in compagnia di Riccardo e Francesco, due amici dell’Università, il pomeriggio scorre veloce, tra risate spensierate e birre ghiacciate. Eppure, ad un certo punto, complice anche il tasso alcolemico in rapida crescita, un’epifania fa a pezzi tutte le nostre certezze. Come una sentenza, Francesco se ne esce con una frase ovvia, ma al contempo spiazzante:

“Raga, ma vi rendete conto che ormai, anche se ci scoprissimo fenomenali in qualche sport, non potemmo mai andare alle olimpiadi”.

“Ma dai Francesco, non essere così drastico!” rispondo ridendo nel tentativo di parare il colpo “Guarda bene questi tiratori con l’arco, hanno i capelli bianchi e non mi sembrano poi così atletici. Fidati, è solo questione di trovare lo sport giusto!”.

Nonostante ci facevamo forti con questa considerazione poco ortodossa, è stato proprio in quell’istante che per la prima volta ho sentito sulla mia pelle l’inesorabile scorrere del tempo.

Ma la vita – si sa – è davvero imprevedibile e delle volte anche una frase goliardica scandita a mezza voce in un torrido pomeriggio di agosto può trasformarsi in una profezia che si avvera dopo oltre un decennio di distanza. Perché Francesco pur avendo ragione – bastava guardarci per capire che nessuno di noi avrebbe mai avuto la benché minima possibilità per partecipare a un’olimpiade – in realtà si sbagliava di grosso: “è solo questione di trovare lo sport giusto”.

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La mia grande sconfitta alla Parigi Brest Parigi

Ho ideato questo blog sognando un giorno di raccontare la mia Parigi Brest Parigi. Avevo addirittura creato una sezione apposita dove raccogliere tutti gli articoli che parlavano dell’avvicinamento all’appuntamento francese. Eppure, a distanza di due settimane da quando con gli occhi gonfi di gioia ho tagliato il traguardo di Rambouillet, devo ammettere sconsolatamente che da questo punto di vista la Parigi Brest Parigi è per me una grande sconfitta. Non sono, infatti, in grado di restituire con le parole nemmeno una piccola parte di quello che questo evento rappresenta realmente.

Dopo tutto, come si può pretendere di raccontare un’esperienza così grande? Solo a citare i principali numeri c’è perdersi. 6749 iscritti prevenienti da oltre 60 diversi paesi. 1222 chilometri di sali e scendi, per un totale di 12.000 metri di dislivello. Ben quattro regioni francesi attraversate seguendo le migliaia di frecce con scritto Brest e le altrettante con scritto Parigi, poste con pazienza dagli organizzatori nei giorni precedenti alla partenza. Ma soprattutto, oltre 2000 volontari lungo tutto il percorso e diverse decine di migliaia di persone a bordo strada. Uomini, donne e tantissimi bambini che con i loro sorrisi, gli incitamenti, i loro “batti cinque” e i vari banchetti improvvisati con acqua, bevande e ristori di ogni genere, ci hanno sostenuto a tutte le ore del giorno e della notte. Un calore talmente grande da trascinarti al traguardo, lasciandoti spesso senza fiato mentre nella testa ti ripeti canticchiando: “We can be Hero, just for One Day”.

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La maglia della nazionale ARI

Doppia tonalità di azzurro: più chiaro all’altezza delle spalle e più scuro dal petto in giù. Logo Audax Randonneur Italia sulla destra e sulla sinistra il marchio BL. Al centro, in stampatello, la scritta ITALIA in bianco. Più in basso una fascia con la bandiera nazionale, con le strisce verdi, bianche e rosse ruotate di 70 gradi. Bordatura tricolore di circa un centimetro sulla manica destra. Altre due scritte ITALIA sulle spalle. Sul colletto capeggiano le date 2023-2026, in bianco. Sul retro, invece, svetta la scritta blu contenente l’acronimo ARI a cui si interseca, più in piccolo, la scritta ITALIA, anch’essa in bianco. Più in basso una grande fascia tricolore con i bordi ruotati di 70 gradi e la scritta bianca NAZIONALE ITALIANA RANDONEUR. Sulle tasche un logo giallo che invita di prestare attenzione a chi si appresta al sorpasso. Tessuto tecnico traspirante Dual con maniche in tessuto elasticizzato. Vestibilità aderente senza costrizioni.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, trovare una descrizione così fredda potrebbe diventare la quotidianità. Ma quanto sarebbe triste la vita se approcciata puramente in termini didascalico-materiali?

Perché la maglia appena descritta – quella della nazionale italiana randonnée – è stupenda a prescindere dal suo design o dal suo tessuto tecnico. Questa maglia è un simbolo. Un rito di ingresso dentro una comunità ciclistica fatta di persone dalle infinite inflessioni dialettali, così diverse e al contempo così simili tra loro. Un monumento alla tanta fatica fatta per averla e alla forza d’animo che ci ha spinto a non mollare nei momenti più disperati.

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Una MiRando decisamente sopra le righe

Una delle tante cose che mi piacciono delle randonnée è che non poi mai fare previsioni su quello che succederà. Così è stato anche alla MiRando di domenica scorsa, 196 km tra il parco Sud e il parco del Ticino. Anche questa volta sono partito da casa in solitaria, immaginando di aggregarmi a qualche gruppetto che avrei incontrato all’inizio del percorso. Purtroppo, però, per via di alcuni problemi con la traccia, dopo pochi metri ero già abbondantemente fuori percorso e ben lontano da tutti gli altri partecipanti. “Stai a vedere che oggi mi tocca fare 200 km in completa solitudine”.

Una volta rientrato sul percorso, lascio la ciclabile del Naviglio Pavese per addentrarmi nelle stradine lungo i campi. Con la coda dell’occhio scorgo dietro di me un ciclista in sella a una gravel. Nemmeno il tempo di accorgermene che mi sorpassa a velocità doppia sparendo dietro la prima curva. “Non esiste che mi faccio staccare da un ragazzo con le ruote tassellate!”.

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Pedalare nel silenzio della notte: la rando del Solstizio d’Inverno

Un po’ come per Jan Ullrich, la fine della stagione ciclistica per me è sempre stato un momento piuttosto particolare. Attratto dalla vita mondana, infatti, non è mai facile trovare il momento giusto in cui ricominciare a pedalare seriamente.

Mai come quest’anno, tuttavia, forse anche per via di un Autunno che ha scelto di essere proprio molesto, con la pancia dei giorni migliori, la muscolatura ormai rinsecchita e poco meno di cinquecento chilometri percorsi negli ultimi tre mesi, è arrivato inesorabilmente il primo appuntamento stagionale: la Randonnée del Solstizio d’Inverno, con i suoi 195 chilometri da percorrere tutti in notturna attorno al lago di Garda.

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I randonneur.

I randonneur sono persone uniche nel loro genere: i più dannati tra tutti i dannati del pedale. Sono uomini e donne all’apparenza normalissimi, i classici vicini della porta accanto. Hanno fisici per nulla scolpiti e spesso hanno anche tanti capelli bianchi. Eppure, i veri randonneur sono le persone più forti e invincibili con cui vi capiterà di parlare.

I randonneur se ne fregano dei limiti fisici e mentali di un essere umano, loro vivono la bicicletta in maniera totale. Riescono a stare in sella per giorni interi, senza mai fermarsi e cedere alla fatica. Affrontano salite a ripetizione, anche decine di migliaia di metri di dislivello in sequenza, senza mai smettere di puntare al proprio personale obiettivo. Ognuno con il proprio passo. Ognuno in perfetta armonia con il proprio corpo. Ognuno con la consapevolezza che per ogni eventuale fallimento ci sarà sempre una nuova sfida per potersi rimettere alla prova.

I randonneur pedalano di giorno, di notte, nel freddo rigido dell’inverno e sotto il caldo torrido dell’Anticiclone africano. Non si curano dei violenti temporali che possono coglierli durante le loro imprese o degli animali selvatici che puntualmente attraversano la loro strada durante le notti a pedalare.

I randonneur hanno biciclette modificate per le grandi distanze, accessoriate con dinamo e borse spesso autoprodotte, che gli permettono di pedalare per giorni in totale autonomia, o come dicono loro “in autosufficienza”. A differenza dei loro cugini che fanno le granfondo, non si curano dei graffi sul telaio, anzi ne vanno fieri in quanto ricordi indelebili delle loro avventure.

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L’ignoto.

Per un ciclista medio, una volta accumulata una certa esperienza e una discreta conoscenza del proprio corpo, raggiungere un obiettivo stagionale non è quasi mai un’impresa impossibile. Per quanto grande possa essere il traguardo scelto, quello che un amatore si appresta ad affrontare è principalmente una sfida con sé stesso e i suoi limiti: un percorso che si può preparare e pianificare per tempo con un margine di errore relativamente contenuto.

Una volta fissata “l’impresa”, occorre studiare meticolosamente ciò che si vuole andare a realizzare, contare quante settimana si hanno a disposizione per prepararsi e fare i conti con il tempo che si riesce effettivamente a dedicare all’allenamento. A quel punto basterà scomporre il proprio traguardo nei diversi elementi che lo caratterizzano e studiare un calendario di avvicinamento con impegni progressivi e allenamenti funzionali a migliorare in ciascuno dei segmenti individuati. Al netto di possibili errori di valutazione, se si sarà in grado di seguire con flessibilità quanto pianificato, tutto sarà destinato ad andare per il verso giusto.

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