MIRANDO 2024: la prima randonée di Sabrina

Vi avevo già parlato di Sabrina Raimondo, della sua ambizione e del suo progetto Road to qualcosa… Oggi, però, con questo suo pezzo che pubblico con grandissima emozione, Sabrina ha deciso di entrare a pieno titolo nel mondo dei Dannati del Pedale: quella specifica categoria di persone che non solo non riescono a fare a meno della loro dose quotidiana di ciclismo, ma che ne sono talmente coinvolte, tanto da aver bisogno di scrivere e mettere su carta le proprie emozioni. Buona lettura e in bocca al lupo per il suo Road to Qualcosa…

Qualche settimana fa ricevo una mail sul mio smartphone, oggetto: MIRANDO MILANO… Così la mia mente non ha potuto far altro che tornare indietro di un anno, quando ho partecipato alla mia prima Randonée e a tutto il mio percorso per poterci arrivare.

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Fate attenzione: le randonnée possono creare dipendenza

Le randonnée, al pari dei farmaci più potenti, dovrebbero prevedere l’obbligo di prescrizione medica. Troppo alto il rischio di caderne in dipendenza. Una volta imboccato il tunnel delle randonnée, infatti, sarà difficile tornare alla vita di prima.

Perché le randonnée sono il palcoscenico perfetto per fuggire dalla frenesia della vita di città. Si pedala per ore e ore in mezzo alla natura, quasi sempre su strade secondarie, lontano dal traffico e dalle noie del quotidiano.

Le randonnée sono l’espressione più alta del concetto di Libertà. Non discriminano per tipologia di bici e per tipo di approccio scelto. Ognuno può optare per ciò che lo fa stare meglio. Si può pedalare spingendo a tutta o si può giocare con il tempo massimo per godersi a pieno il panorama circostante.

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Quel labile confine tra audacia e follia

Sarà che il 5 maggio si correrà la granfondo BGY Airport – la corsa ciclistica amatoriale tra le valli bergamasche, che nel cuore di tutti gli appassionati resterà per sempre “la Gimondi”. Sarà il clima rigido, decisamente fuori stagione, di queste settimane. Ma nella mia mente continua ad affiorare il ricordo di quella folle edizione del 2019, l’ultima con ancora in vita il campione gentile di Sedrina, anch’essa disputata il 5 maggio, quando una bufera di neve travolse la corsa e decine di cicloamatori furono soccorsi per un principio di assideramento. Chi di voi se la ricorda?

Occorre premettere che, nella vita come nello sport, il confine tra audacia e follia è decisamente labile e soggettivo. Penso a quei due simpaticissimi ragazzi che abbiamo conosciuto qualche sera fa in un locale danzereccio alla periferia di Milano. Era quasi l’una e loro – non lo direste mai – stavano rientrando piuttosto “alterarti” da un incontro di filosofia organizzato in un teatro del centro. Sostenevano di aver passato la serata a formulare domande talmente pungenti da aver smontato l’impianto teorico e aver messo in imbarazzo lo speaker del convegno, un noto filosofo di fama internazionale. Chissà se questo racconto non sia il prodotto di quella lucida follia alimentata dalla “polvere bianca” o se in quel teatro milanese, in un’anonima serata di aprile, si sia davvero consumata un’audace tenzone a colpi di argomentazioni filosofiche?

Audacia e follia, due mondi troppo spesso interrelati, che mai come nel ciclismo tendono a fondersi in una cosa sola. Se, infatti, ognuno di noi – chi in maniera più esplicita e chi senza rendersene effettivamente conto – anela a superare continuamente i propri limiti, a spingersi centimetro dopo centimetro sempre più avanti, dove finisce il concetto di intraprendenza e inizia quello di incoscienza? Allo stesso modo, in un contesto in cui ciascuno ha capacità genetiche, abilità tecniche, livelli di preparazione e disposizioni mentali differenti, quello che per qualcuno può essere considerato follia è realmente ascrivibile per tutti allo stesso modo? Domande che forse potremmo definire pseudo-metafisiche, un po’ come quelle poste dai due improvvisati filosofi della notte, ma che mai come nell’edizione del 2019 della Granfondo Gimondi hanno assunto un significato profondo.

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Da Varese a Firenze: la prima Fléche National e l’assenza del superfluo

La famiglia dei Dannati del Pedale si allarga. Con grande piacere, infatti, riceviamo e pubblichiamo il racconto di Emanuele Pizzato, che da alcuni anni continua a macinare instancabilmente chilometri in sella alla sua Poderosa e oggi ci racconta della prima Fléche National che si è svolta nel weekend di Pasqua.

Partecipare alla prima Flèche italiana per far parte della storia di A.R.I. (sembra che io stia cercando a tutti i costi un modo per essere ricordato). Facile entrare nella storia così, eravamo in poco più di 100 ciclisti, suddivisi in 25 squadre e sarebbe stato sufficiente pedalare per 360 chilometri in 24 ore.

Ma la Flèche è ben altro, non proprio una competizione, ma piuttosto una opportunità offerta al randonneur di riflessione su randagismo e di apertura alla condivisione della fatica e delle emozioni del viaggio (almeno nelle intenzioni degli ideatori). Perché il randagio è un solitario. Quando si pedala per ore, o per giorni nelle over 1200, è quasi impossibile avere le stesse esigenze dei compagni e, soprattutto, nello stesso momento.

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Senza arrendersi alla ragione

La sindrome di Galois, così mi è stato detto in una piacevole sera di mezz’estate, è quella tendenza a procrastinare una certa azione fino all’ultimo istante per poi compiere uno sforzo immane e a tratti autolesionista per portarla a termine entro le scadenze prestabilite. Una gestione del tempo del tutto divergente con il ciclismo – sport meraviglioso e liberatorio – che richiede dedizione e costanza per essere praticato a un livello tale da non lasciare dolorosi rimpianti nei giorni successivi alle pedalate più esigenti.

Eppure, non c’è niente da fare. Nonostante continui a ripetermi i soliti buoni propositi, ogni anno tra ottobre e novembre mi ritrovo quotidianamente a fissare i rulli accanto alla poltrona, trovando sempre una buona scusa per rimandare l’inizio degli allenamenti o a passere le domeniche sotto le coperte promettendomi che la settimana successiva sarà quella buona per riprendere a macinare chilometri. Procrastinare, procrastinare, procrastinare!

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La mia prima notte in bici, pedalando da Milano a Siena

È da più di un mese che sono bloccato a casa. Febbre alta, continue ricadute e doppio ciclo di antibiotici. In altre parole, un inizio di stagione sempre in panchina e che dovrebbe indurmi a riflettere sull’inesorabile incedere dell’età. Tuttavia – come mi è stato fatto notare da chi mi conosce bene – mai come in questa occasione, tutto ciò è la risultante di una serie di scelte estremamente discutibili. Pedalare in Grecia, sotto un’insolita nevicata, per poi salire direttamente sull’aereo del ritorno, senza avere la reale possibilità di asciugarmi. Ammalarmi e andare comunque allo stadio sotto una pioggia battente. Prendermi una forte ricaduta e decidere di interrompere l’antibiotico anzitempo perché “è inaccettabile che le case farmaceutiche facciano confezioni da sei giorni quando il ciclo è di sette”. Forse non si tratta del mio fisico che sta chiedendomi una pausa, ma della mia testa che sta regredendo a uno stato adolescenziale. Effettivamente va detto che, proprio come per gli adolescenti, il mio cervello in questi giorni sta sfruttando questo riposo forzato per rimettere in moto i sogni e i grandi progetti. Così, mentre nella testa si addensano innumerevoli idee più o meno impraticabili, mi ritrovo a guardare vecchie foto e ripensare a quell’assurda pedalata da Milano a Siena dove tutto è cominciato.

Siamo nel marzo 2022. La Strade Bianche è passata da una settimana e la mia macchina si trova presso un carrozziere calabrese alle porte di Siena. L’ho abbandonata lì al termine della granfondo, con la frizione ormai distrutta. Per recuperarla mi è toccato acquistare un biglietto del treno e prendere ferie. “Certo che è proprio triste utilizzare un giorno di riposo unicamente per viaggiare, recuperare la macchina e guidare senza sosta verso casa” dico tra me e me. “Sarebbe proprio bello andarci in bici. Se solo Siena non fosse così maledettamente lontana!”.

Alla vigilia della partenza, scrocco un pranzo da mia madre e, quasi per scherzo, le espongo queste mie perplessità. Lei, da donna pragmatica del sud, è categorica: “Umberto, ma sei cretino? Se vai in bici perdi il biglietto del treno che hai già pagato!”

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Road to qualcosa…

Per le persone come me non è mai facile trovare le motivazioni per ripartire dopo aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato, pianificato e alla fine realizzato. Non si tratta solo del nomale appagamento che tende ad assopire – per fortuna solo temporaneamente – la nostra sete di avventure. La preparazione per arrivare pronti all’evento sognato da tempo, con i suoi costanti sforzi, la pianificazione attenta e le inevitabili paure, è indissolubilmente legata al traguardo che si vuole superare. Un percorso lungo e tortuoso che si riverbera in quell’attesa leopardiana, che per me rappresenta l’essenza stessa del piacere.

Passato il grande evento, tagliato il traguardo tanto agognato, tutto questo svanisce: si riparte nuovamente da zero. Occorre, allora, trovare nuovi modi per dare un senso alla fatica. Incanalare la propria passione per trovare l’ennesimo obiettivo che consenta di riuscire a superarsi. Più grande è il traguardo raggiunto, più difficile sarà trovare la forza per rimettersi in moto.

In quest’ottica, per me che fino a un paio di anni fa non avevo mai immaginato si potesse pedalare per più di 200 chilometri nella stessa giornata, l’aver tagliato il traguardo della Parigi Brest Parigi è stato un fattore completamente destabilizzante: un’emozione profonda che inevitabilmente ha lasciato un enorme vuoto dietro di sé.

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Né pazzi, né sconsiderati: perché partecipare alla Parigi Brest Parigi?

Per comprendere le ragioni che mi hanno spinto a partecipare alla Parigi Brest Parigi è necessario tornare indietro di tanti anni, quando ancora non conoscevo l’esistenza di questa manifestazione e quando il tuffo sul materasso era l’unico sport che praticavo.

È l’estate 2012. Mentre il caldo afoso dei pomeriggi bolognesi ti imprigiona sul divano ed è impossibile anche solo pensare di uscire di casa, alla televisione l’inconfondibile voce di Franco Bragagna ci racconta le imprese degli atleti italiani alle Olimpiadi di Londra. Come sempre quando sono in compagnia di Riccardo e Francesco, due amici dell’Università, il pomeriggio scorre veloce, tra risate spensierate e birre ghiacciate. Eppure, ad un certo punto, complice anche il tasso alcolemico in rapida crescita, un’epifania fa a pezzi tutte le nostre certezze. Come una sentenza, Francesco se ne esce con una frase ovvia, ma al contempo spiazzante:

“Raga, ma vi rendete conto che ormai, anche se ci scoprissimo fenomenali in qualche sport, non potemmo mai andare alle olimpiadi”.

“Ma dai Francesco, non essere così drastico!” rispondo ridendo nel tentativo di parare il colpo “Guarda bene questi tiratori con l’arco, hanno i capelli bianchi e non mi sembrano poi così atletici. Fidati, è solo questione di trovare lo sport giusto!”.

Nonostante ci facevamo forti con questa considerazione poco ortodossa, è stato proprio in quell’istante che per la prima volta ho sentito sulla mia pelle l’inesorabile scorrere del tempo.

Ma la vita – si sa – è davvero imprevedibile e delle volte anche una frase goliardica scandita a mezza voce in un torrido pomeriggio di agosto può trasformarsi in una profezia che si avvera dopo oltre un decennio di distanza. Perché Francesco pur avendo ragione – bastava guardarci per capire che nessuno di noi avrebbe mai avuto la benché minima possibilità per partecipare a un’olimpiade – in realtà si sbagliava di grosso: “è solo questione di trovare lo sport giusto”.

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La mia grande sconfitta alla Parigi Brest Parigi

Ho ideato questo blog sognando un giorno di raccontare la mia Parigi Brest Parigi. Avevo addirittura creato una sezione apposita dove raccogliere tutti gli articoli che parlavano dell’avvicinamento all’appuntamento francese. Eppure, a distanza di due settimane da quando con gli occhi gonfi di gioia ho tagliato il traguardo di Rambouillet, devo ammettere sconsolatamente che da questo punto di vista la Parigi Brest Parigi è per me una grande sconfitta. Non sono, infatti, in grado di restituire con le parole nemmeno una piccola parte di quello che questo evento rappresenta realmente.

Dopo tutto, come si può pretendere di raccontare un’esperienza così grande? Solo a citare i principali numeri c’è perdersi. 6749 iscritti prevenienti da oltre 60 diversi paesi. 1222 chilometri di sali e scendi, per un totale di 12.000 metri di dislivello. Ben quattro regioni francesi attraversate seguendo le migliaia di frecce con scritto Brest e le altrettante con scritto Parigi, poste con pazienza dagli organizzatori nei giorni precedenti alla partenza. Ma soprattutto, oltre 2000 volontari lungo tutto il percorso e diverse decine di migliaia di persone a bordo strada. Uomini, donne e tantissimi bambini che con i loro sorrisi, gli incitamenti, i loro “batti cinque” e i vari banchetti improvvisati con acqua, bevande e ristori di ogni genere, ci hanno sostenuto a tutte le ore del giorno e della notte. Un calore talmente grande da trascinarti al traguardo, lasciandoti spesso senza fiato mentre nella testa ti ripeti canticchiando: “We can be Hero, just for One Day”.

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Alcuni errori da evitare prima della Parigi Brest Parigi

Non avrei mai pensato di poter essere qui a Mulhouse, al confine tra la Francia e la Svizzera, con il cuore in gola a scandire le (ormai pochissime) ore che mi separano dalla partenza della Parigi Brest Parigi. Sto vivendo praticamente un sogno, perché checché se ne dica, se pur non l’avessi mai sentita nominare prima dell’anno scorso, come in un déjà-vu, certe cose capisci ti appartengono fin da subito. Eppure, nonostante agognassi a questo evento dal primo giorno in cui casualmente ho incrociato il mondo delle randonnée, l’avvicinamento all’appuntamento parigino è stato letteralmente un disastro.

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