La maglia della nazionale ARI

Doppia tonalità di azzurro: più chiaro all’altezza delle spalle e più scuro dal petto in giù. Logo Audax Randonneur Italia sulla destra e sulla sinistra il marchio BL. Al centro, in stampatello, la scritta ITALIA in bianco. Più in basso una fascia con la bandiera nazionale, con le strisce verdi, bianche e rosse ruotate di 70 gradi. Bordatura tricolore di circa un centimetro sulla manica destra. Altre due scritte ITALIA sulle spalle. Sul colletto capeggiano le date 2023-2026, in bianco. Sul retro, invece, svetta la scritta blu contenente l’acronimo ARI a cui si interseca, più in piccolo, la scritta ITALIA, anch’essa in bianco. Più in basso una grande fascia tricolore con i bordi ruotati di 70 gradi e la scritta bianca NAZIONALE ITALIANA RANDONEUR. Sulle tasche un logo giallo che invita di prestare attenzione a chi si appresta al sorpasso. Tessuto tecnico traspirante Dual con maniche in tessuto elasticizzato. Vestibilità aderente senza costrizioni.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, trovare una descrizione così fredda potrebbe diventare la quotidianità. Ma quanto sarebbe triste la vita se approcciata puramente in termini didascalico-materiali?

Perché la maglia appena descritta – quella della nazionale italiana randonnée – è stupenda a prescindere dal suo design o dal suo tessuto tecnico. Questa maglia è un simbolo. Un rito di ingresso dentro una comunità ciclistica fatta di persone dalle infinite inflessioni dialettali, così diverse e al contempo così simili tra loro. Un monumento alla tanta fatica fatta per averla e alla forza d’animo che ci ha spinto a non mollare nei momenti più disperati.

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In fuga alla (quasi) Milano Sanremo

“È un mondo difficile. È vita intensa. Felicità a momenti e futuro incerto”

Sono abbastanza sicuro che quando Tonino Carotone scrisse questa canzone non si riferisse affatto al mondo del ciclismo. Eppure, pensandoci bene, questi versi raccontano meglio di altre mille parole la nostra (quasi) Milano Sanremo.

Di certo è stata una giornata intensa, ricca di tanti imprevisti e dall’esito sempre incerto. Una giornata caratterizzata dagli sbalzi di umore. Dalla telefonata di Matteo che interrompe la mia colazione – Umberto ho la bici rotta – al – dai non ti preoccupare, passa da me che ti presto la mia vecchia. Dalla rincorsa in macchina per recuperare Giovanni, che nel frattempo era ormai quasi arrivato a Pavia, a quando dopo tanti chilometri al vento ci ha raggiunto il gruppone de La Popolare. Dalla catena rotta di Matteo salendo sulle dolci rampe del Turchino, alla bellezza del mare. Dal “siamo in ritardo ma se ci muoviamo riusciamo a vedere i professionisti almeno sulla Cipressa”, al pubblico a bordo strada che, un po’ come se fossimo dei fuggitivi, ci grida di non mollare mentre il gruppo sta inesorabilmente venendo a prenderci già all’altezza di Loano. Dalla fatica accumulata nel susseguirsi dei Capi, della Cipressa e del Poggio, all’arrivo all’imbrunire sul traguardo di Via Roma.

Tonino direbbe lapidario “la culpa è de l’amor”. Ed effettivamente ditemi se tutto questo non è figlio dell’amore incondizionato per il ciclismo. Una passione talmente forte da spingerti ad alzarti alle 3.45 del mattino per provare ad anticipare i professionisti lungo il percorso della classica più lunga del calendario.

Ma dopo 11 ore in sella e quasi 300 chilometri nelle gambe, affascinato dalla bellezza e dai colori della costa ligure, mi sento di condividere a pieno le parole indelebili incise sulla strada con cui i ragazzi de La Popolare hanno voluto omaggiare questa giornata indimenticabile: MILANO-SANREMO: SEI BELLA COME L’ANTIFASCISMO.

Il Maury e quel “maledetto” primo passo verso la Dannazione

Secondo un antico proverbio cinese, “anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo”. In bicicletta, come nella vita quotidiana, solo delle volte questo moto inziale avviene consapevolmente, agognando a una meta ben nota. Nella maggior parte dei casi, invece, è solo la buona sorte che ci porta a incedere per la prima volta verso una direzione ancora tutta da costruire.

Mi è sempre più chiaro, infatti, che se ad oggi non so ancora dove mi trascinerà questa passione per la bicicletta – se davvero mi porterà sul prato di Rambouillet al termine di un’infinta Parigi Brest Parigi o mi spingerà verso quei grandi e piccoli traguardi che giorno per giorno affiorano nella mia testa di Dannato del Pedale – posso dire con certezza che quel primo passo verso questo viaggio nell’ignoto l’ho intrapreso inconsapevolmente il giorno che conobbi il Maury.

Era un freddo mercoledì del marzo 2018. Io pesavo quasi cento chili e avevo da poco deciso di iscrivermi in palestra. In sala spinning mi accolse un omone intento a testare l’impianto per la lezione riproducendo a tutto volume della musica italiana remixata in chiave techno. Lineamenti duri. Corpo scolpito da una muscolatura imponente. Lo sguardo grintoso e la voce profonda. I lunghi capelli raccolti e sostenuti da una bandana rossa con scritto “I Fantastici de il Maury”. Ai piedi degli anfibi di pelle nera e indosso una giacca mimetica di matrice paramilitare. Non c’era dubbio, a prima vista, quell’omone piuttosto singolare incuteva un certo timore!

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Pedalare nel silenzio della notte: la rando del Solstizio d’Inverno

Un po’ come per Jan Ullrich, la fine della stagione ciclistica per me è sempre stato un momento piuttosto particolare. Attratto dalla vita mondana, infatti, non è mai facile trovare il momento giusto in cui ricominciare a pedalare seriamente.

Mai come quest’anno, tuttavia, forse anche per via di un Autunno che ha scelto di essere proprio molesto, con la pancia dei giorni migliori, la muscolatura ormai rinsecchita e poco meno di cinquecento chilometri percorsi negli ultimi tre mesi, è arrivato inesorabilmente il primo appuntamento stagionale: la Randonnée del Solstizio d’Inverno, con i suoi 195 chilometri da percorrere tutti in notturna attorno al lago di Garda.

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Il Cicloviaggiatore

Viaggiare in bicicletta è una delle massime espressioni di libertà personale. Il cicloviaggiatore passa le giornate in mezzo alla natura, abbastanza veloce da poter cogliere il mutare rapido del paesaggio, ma al contempo sufficientemente lento da apprezzare a pieno gli scorci che si susseguono dinnanzi ai suoi occhi.

Il cicloviaggiatore pedala e si lascia alle spalle le preoccupazioni della società moderna, ricca di frenesie e ansie per ritornare a quello stato primordiale in cui prevalgono i suoi bisogni essenziali. “Dove andrò a dormire? Cosa mangerò? Troverò da bere? Che strada devo fare? Con chi potrò comunicare?” Una fuga dall’uomo oeconomicus verso quei valori di base che caratterizzato l’essenza stessa dell’essere umano.

In sella alla sua bicicletta, il cicloviaggiatore ha la possibilità di vivere il territorio in maniera privilegiata, attivando tutti e cinque i sensi. Oltre alla vista mozzafiato, infatti, ha la possibilità di cogliere le intense note aromatiche della macchia mediterranea. Riesce a percepire il sapore della salsedine che si accumula nell’aria o della polvere che si eleva dagli sterrati. Sente sulla sua faccia il vento gelido dei monti e la pioggia battente che lo coglie di sorpresa lungo il percorso. Ha la possibilità di ascoltare il suono dell’oceano o la babele di idiomi che in tutto il suo viaggio non mancheranno di fargli sentire il proprio sostegno.

Il cicloviaggiatore si risveglia quotidianamente in mezzo alla natura, pronto a ripartire verso nuove tappe: traguardi parziali che compongono una grande avventura, fatta di emozioni intense, fatica, grandi risate, paura di non farcela. Ogni mattina, al sorgere del sole, il cicloviaggiatore smonta la sua tenda e ripone minuziosamente le sue cose nelle borse gestendo maniacalmente il poco spazio a disposizione. La sua bicicletta è una vera e propria casa viaggiante su due ruote, efficientemente accessoriata, alimentata solo dalla forza delle sue gambe e dalla sua voglia di spingersi verso quell’orizzonte che appare sempre così lontano.

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“Riportando tutto a casa”: il mio ciclioviaggio da Torino a La Coruña

Per raccontare un viaggio così intenso è necessario partire dall’epilogo, quando una decina di chilometri prima di raggiungere la spiaggia di La Coruña, con gli occhi lucidi dall’emozione riavvolgevo il nastro della mia avventura pensando a cosa mi stessi realmente riportando a casa.

Sono gli ultimi colpi di pedale di un viaggio di più di duemila chilometri e nella testa ho un mix di emozioni contrastanti. Ripenso alla brutta caduta di luglio e alle conseguenti paure della vigilia. Sono fermo al semaforo e osservo orgoglioso la mia eterna Cinelli capace di portarmi al traguardo anche questa volta, nonostante gli anni che passano e i 18 kg di bagagli: dopo questa avventura, forse, si merita anche lei un lungo riposo.

Osservo le onde del mare che si infrangono sulla scogliera e mi tornano alla mente le immagini della partenza dal Motovelodromo di Torino. Quattro chiacchiere in compagnia di alcuni amici venuti a farmi coraggio e la certezza – confermata appena qualche chilometro più avanti, lungo le dure rampe del Moncenisio – di quanto fossi impreparato per tutto questo.

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I primi 100 km non si scordano mai

Ve li ricordate i vostri primi 100km? Quelli di Elisa si sono materializzati per caso, nel sabato più torrido dell’ultimo decennio.

Dovete sapere che Elisa, in tutta la sua vita, di chilometri ne avrà fatti al massimo 350, utilizzando biciclette che le sono sempre state prestate. In questo modo, si è ritrovata a pedalare con mezzi fuori misura che hanno contribuito a rafforzare il suo senso di equilibrio precario tipico di chi ha ancora una certa inesperienza nella guida. E, infatti, chi ha avuto modo di pedalare al suo fianco riconoscerebbe da centinaia di metri i suoi urletti di terrore (sempre del tutto ingiustificato) che accompagnano regolarmente i brevi tratti in discesa delle sue scampagnate domenicali.

Come tutti i novizi di questo sport, Elisa ha l’entusiasmo ingenuo e sfrontato di chi non sa bene a cosa stia andando incontro. “Questo weekend vado in campeggio nel piacentino con le mie amiche, che ne dici se ci andiamo insieme in bicicletta?” la sua inattesa richiesta in un caldo pomeriggio di luglio. Ma il destino di ogni sognatore è sempre legato a qualcuno che lo mette di fronte alla dura realtà.  “Eli, ma sei impazzita? Sono oltre 100 km e fuori ci saranno quasi quaranta gradi”.

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I randonneur.

I randonneur sono persone uniche nel loro genere: i più dannati tra tutti i dannati del pedale. Sono uomini e donne all’apparenza normalissimi, i classici vicini della porta accanto. Hanno fisici per nulla scolpiti e spesso hanno anche tanti capelli bianchi. Eppure, i veri randonneur sono le persone più forti e invincibili con cui vi capiterà di parlare.

I randonneur se ne fregano dei limiti fisici e mentali di un essere umano, loro vivono la bicicletta in maniera totale. Riescono a stare in sella per giorni interi, senza mai fermarsi e cedere alla fatica. Affrontano salite a ripetizione, anche decine di migliaia di metri di dislivello in sequenza, senza mai smettere di puntare al proprio personale obiettivo. Ognuno con il proprio passo. Ognuno in perfetta armonia con il proprio corpo. Ognuno con la consapevolezza che per ogni eventuale fallimento ci sarà sempre una nuova sfida per potersi rimettere alla prova.

I randonneur pedalano di giorno, di notte, nel freddo rigido dell’inverno e sotto il caldo torrido dell’Anticiclone africano. Non si curano dei violenti temporali che possono coglierli durante le loro imprese o degli animali selvatici che puntualmente attraversano la loro strada durante le notti a pedalare.

I randonneur hanno biciclette modificate per le grandi distanze, accessoriate con dinamo e borse spesso autoprodotte, che gli permettono di pedalare per giorni in totale autonomia, o come dicono loro “in autosufficienza”. A differenza dei loro cugini che fanno le granfondo, non si curano dei graffi sul telaio, anzi ne vanno fieri in quanto ricordi indelebili delle loro avventure.

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Oltre ogni tuo limite: il mondo delle randonnée

Ho scoperto il mondo delle randonnée per puro caso, come nei più classici romanzi d’amore. È bastato un invito disinteressato durante un corso di spinning: “Ehi! Che fai questa domenica? La mia società organizza un giretto in bici, si va sulle colline dell’Oltrepò. A metà percorso c’è un bel ristoro con vino e salame”. Poche e semplici parole di chi sa come motivare quelle persone che, come me, coniugano la grande passione per la bicicletta con un’innata fascinazione per l’enogastronomia.

Mi ritrovai, così, quasi per caso in partenza per la mia prima randonnée. “Tra Riso e Vino”, una pedalata di 220 chilometri con partenza la mattina presto dalla periferia di Miano, diversi chilometri di pianura per poi giungere nelle colline che circondano la zona tra Pavia e Voghera, dove si attraversa un interminabile saliscendi di quasi duemila metri di dislivello e infine imboccare il tratto di pianura Padana che riporta verso il capoluogo lombardo.

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