Milano Genova Milano 2025: la bellezza di pedalare in compagnia

Su questo blog tante volte ci siamo occupati di raccontare la bellezza del pedalare, la passione per la fatica estrema e per le imprese fuori dal comune. In misura minore, ma con una certa costanza, ci siamo soffermati sulla bellezza dei paesaggi e sull’anima dei luoghi attraversati durante le nostre scampagnate su due ruote. Ma c’è una terza componente a cui abbiamo dato poco peso e che rende la bicicletta un mezzo meraviglioso: la compagnia di chi ci circonda.

Un concetto ben espresso dal motto “You’ll never ride alone” evidenziato sulle divise de La Popolare Ciclistica, la mia nuova casa da ormai due anni. Ed è su questi temi che Luca Gubellini ha voluto esordire nel mondo dei Dannati del Pedale, raccontandoci la nostra Milano Genova Milano 2025, un evento organizzato da Roberto Moscatelli – l’uomo che ha vissuto due volte – per celebrare l’undicesimo anniversario della sua seconda vita. Un racconto che ospitiamo su queste pagine con grande gioia, interamente centrato sulle persone e ricco di ironia. Un racconto certamente vero… ma al 90%, come le mitiche storie di Dino Zandegù.

Di Luca Gubellini

Innanzitutto grazie Roberto per questo bellissimo viaggio, per me si è trattato anche della prima volta che sono tornato in bici e devo dire che a posteriori mi dispiace non averci provato in precedenza! Credendo di fare cosa gradita, ho provato a raccontare un po’ del nostro viaggio attraverso l’esperienza di ognuno di noi, ho cercato di farlo in maniera scherzosa ed ironica, prendendo cose/fatti realmente accaduti, ricamandoci un po’ sopra e mettendoci anche un pizzico di fantasia. Credo sia un modo simpatico per ricordarci di questa fantastica esperienza e farci qualche risata, ma se qualcuno preferisse non essere citato, il prossimo anno ne terrò conto e mi asterrò. Grazie a tutti per la splendida compagnia e buona lettura!

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Le 10 lezioni che ho imparato pedalando tra Fiandre, Ardenne e Roubaix.

Sono appena tornato da una vacanza in bicicletta di otto giorni tra le pianure sconfinate e le strade in pavé che contraddistinguono la Francia settentrionale, le dune sabbiose su cui si staglia il Mare del Nord, le pietre e i muri delle Fiandre, i castelli e le infinite coté che caratterizzano la zona delle Ardenne.

L’idea da cui è originata questa vacanza è stata quella di pedalare sui percorsi di tre classiche Monumento che caratterizzano il calendario ciclistico professionistico internazionale: la Parigi Roubaix, il Giro delle Fiandre, la Liegi Bastogne Liegi, con una piccola deviazione sul muro di Huy, perché, pur non essendo parte della classicissima delle Ardenne, è pur sempre un passaggio iconico e imprescindibile.

Sono partito dall’aeroporto di Bergamo all’alba di sabato 15 giugno con destinazione Charleroi. Tre le mete da raggiungere in bikepacking con il supporto all’occorrenza del treno – Valenciennes, Oudenaarde e Liegi – dalle quali sarei ripartito il giorno successivo per affrontare in modalità più leggera i percorsi che caratterizzano le tre Monumento sopracitate. Oltre a questo, mi sono concesso una piccola deviazione sulla costa fiamminga e un passaggio a Bruxelles per incontrare Francesco, un caro amico dell’università, che ha voluto omaggiarmi con una bonus ride serale sulle colline attorno alla capitale belga. Per chi fosse interessato ad approfondire o stesse pensando di replicare un’analoga esperienza, le tracce GPX sono disponibili su STRAVA o su richiesta via Social.

È stata una “Campagna del Nord” sicuramente molto intensa. Un’avventura su due ruote che mi ha visto pedalare su muri al 18% e su ogni tipo di superfice – pavé, ciottolato fine, lastroni di cemento, asfalto, sterrato e persino qualche tratto sulla sabbia – e che mi ha fatto scoprire un territorio davvero diversificato, spesso sperduto e sicuramente molto affascinate. Una vacanza caratterizzata dallo scorrere della birra, ma anche un’esperienza ciclistica che potrei definire “della maturità” in quanto, come non mai, ho dovuto far ricorso a tanta pazienza e una certa dose di flessibilità per riuscire a superare condizioni meteorologiche a tratti molto difficili e risolvere diversi inconvenienti tecnici.

Ed è proprio per questo motivo che al posto del classico racconto di viaggio ho deciso di mettere in fila i pensieri e astrarre le 10 lezioni che ho imparato in questi intensissimi otto giorni in bicicletta.

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MIRANDO 2024: la prima randonée di Sabrina

Vi avevo già parlato di Sabrina Raimondo, della sua ambizione e del suo progetto Road to qualcosa… Oggi, però, con questo suo pezzo che pubblico con grandissima emozione, Sabrina ha deciso di entrare a pieno titolo nel mondo dei Dannati del Pedale: quella specifica categoria di persone che non solo non riescono a fare a meno della loro dose quotidiana di ciclismo, ma che ne sono talmente coinvolte, tanto da aver bisogno di scrivere e mettere su carta le proprie emozioni. Buona lettura e in bocca al lupo per il suo Road to Qualcosa…

Qualche settimana fa ricevo una mail sul mio smartphone, oggetto: MIRANDO MILANO… Così la mia mente non ha potuto far altro che tornare indietro di un anno, quando ho partecipato alla mia prima Randonée e a tutto il mio percorso per poterci arrivare.

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Fate attenzione: le randonnée possono creare dipendenza

Le randonnée, al pari dei farmaci più potenti, dovrebbero prevedere l’obbligo di prescrizione medica. Troppo alto il rischio di caderne in dipendenza. Una volta imboccato il tunnel delle randonnée, infatti, sarà difficile tornare alla vita di prima.

Perché le randonnée sono il palcoscenico perfetto per fuggire dalla frenesia della vita di città. Si pedala per ore e ore in mezzo alla natura, quasi sempre su strade secondarie, lontano dal traffico e dalle noie del quotidiano.

Le randonnée sono l’espressione più alta del concetto di Libertà. Non discriminano per tipologia di bici e per tipo di approccio scelto. Ognuno può optare per ciò che lo fa stare meglio. Si può pedalare spingendo a tutta o si può giocare con il tempo massimo per godersi a pieno il panorama circostante.

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Quel labile confine tra audacia e follia

Sarà che il 5 maggio si correrà la granfondo BGY Airport – la corsa ciclistica amatoriale tra le valli bergamasche, che nel cuore di tutti gli appassionati resterà per sempre “la Gimondi”. Sarà il clima rigido, decisamente fuori stagione, di queste settimane. Ma nella mia mente continua ad affiorare il ricordo di quella folle edizione del 2019, l’ultima con ancora in vita il campione gentile di Sedrina, anch’essa disputata il 5 maggio, quando una bufera di neve travolse la corsa e decine di cicloamatori furono soccorsi per un principio di assideramento. Chi di voi se la ricorda?

Occorre premettere che, nella vita come nello sport, il confine tra audacia e follia è decisamente labile e soggettivo. Penso a quei due simpaticissimi ragazzi che abbiamo conosciuto qualche sera fa in un locale danzereccio alla periferia di Milano. Era quasi l’una e loro – non lo direste mai – stavano rientrando piuttosto “alterarti” da un incontro di filosofia organizzato in un teatro del centro. Sostenevano di aver passato la serata a formulare domande talmente pungenti da aver smontato l’impianto teorico e aver messo in imbarazzo lo speaker del convegno, un noto filosofo di fama internazionale. Chissà se questo racconto non sia il prodotto di quella lucida follia alimentata dalla “polvere bianca” o se in quel teatro milanese, in un’anonima serata di aprile, si sia davvero consumata un’audace tenzone a colpi di argomentazioni filosofiche?

Audacia e follia, due mondi troppo spesso interrelati, che mai come nel ciclismo tendono a fondersi in una cosa sola. Se, infatti, ognuno di noi – chi in maniera più esplicita e chi senza rendersene effettivamente conto – anela a superare continuamente i propri limiti, a spingersi centimetro dopo centimetro sempre più avanti, dove finisce il concetto di intraprendenza e inizia quello di incoscienza? Allo stesso modo, in un contesto in cui ciascuno ha capacità genetiche, abilità tecniche, livelli di preparazione e disposizioni mentali differenti, quello che per qualcuno può essere considerato follia è realmente ascrivibile per tutti allo stesso modo? Domande che forse potremmo definire pseudo-metafisiche, un po’ come quelle poste dai due improvvisati filosofi della notte, ma che mai come nell’edizione del 2019 della Granfondo Gimondi hanno assunto un significato profondo.

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Da Varese a Firenze: la prima Fléche National e l’assenza del superfluo

La famiglia dei Dannati del Pedale si allarga. Con grande piacere, infatti, riceviamo e pubblichiamo il racconto di Emanuele Pizzato, che da alcuni anni continua a macinare instancabilmente chilometri in sella alla sua Poderosa e oggi ci racconta della prima Fléche National che si è svolta nel weekend di Pasqua.

Partecipare alla prima Flèche italiana per far parte della storia di A.R.I. (sembra che io stia cercando a tutti i costi un modo per essere ricordato). Facile entrare nella storia così, eravamo in poco più di 100 ciclisti, suddivisi in 25 squadre e sarebbe stato sufficiente pedalare per 360 chilometri in 24 ore.

Ma la Flèche è ben altro, non proprio una competizione, ma piuttosto una opportunità offerta al randonneur di riflessione su randagismo e di apertura alla condivisione della fatica e delle emozioni del viaggio (almeno nelle intenzioni degli ideatori). Perché il randagio è un solitario. Quando si pedala per ore, o per giorni nelle over 1200, è quasi impossibile avere le stesse esigenze dei compagni e, soprattutto, nello stesso momento.

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Senza arrendersi alla ragione

La sindrome di Galois, così mi è stato detto in una piacevole sera di mezz’estate, è quella tendenza a procrastinare una certa azione fino all’ultimo istante per poi compiere uno sforzo immane e a tratti autolesionista per portarla a termine entro le scadenze prestabilite. Una gestione del tempo del tutto divergente con il ciclismo – sport meraviglioso e liberatorio – che richiede dedizione e costanza per essere praticato a un livello tale da non lasciare dolorosi rimpianti nei giorni successivi alle pedalate più esigenti.

Eppure, non c’è niente da fare. Nonostante continui a ripetermi i soliti buoni propositi, ogni anno tra ottobre e novembre mi ritrovo quotidianamente a fissare i rulli accanto alla poltrona, trovando sempre una buona scusa per rimandare l’inizio degli allenamenti o a passere le domeniche sotto le coperte promettendomi che la settimana successiva sarà quella buona per riprendere a macinare chilometri. Procrastinare, procrastinare, procrastinare!

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In bici all’aeroporto di Bergamo: si può fare!

Oggi voglio condividere pubblicamente una esperienza positiva che mi è capitata di recente. Nei giorni scorsi avrei dovuto prendere un aereo alle 8.00 da Bergamo. Abitando appena fuori Milano, avevo pianificato di raggiungere l’aeroporto in macchina, in quanto da casa  i mezzi che mi collegano ad Orio al Serio non sono propriamente comodi, specialmente di mattina presto. La sfiga, tuttavia, si è messa di mezzo e il pomeriggio della vigilia il cambio della mia vecchia Mitsubishi Colt, compagna di mille avventure, ha deciso di bloccarsi definitivamente sulla retromarcia. Iattura infinita.

Davanti a me avevo solamente due opzioni: fare una levataccia e prendere i mezzi pubblici o tentare un’operazione circense, guidando all’indietro per tutti i 60 chilometri che mi separano dall’aeroporto. Devo ammettere che ero decisamente preso dallo sconforto. Poi, dopo un bicchiere di vino, mi è venuta l’idea: “ci vado in bici. Sarà comunque una levataccia, ma almeno mi diverto… e poi, facendo un calcolo spannometrico, dovrei metterci giusto mezz’ora in più che con i mezzi”.

Con il passare dell’effetto inebriante del Vermentino, i dubbi e le perplessità hanno iniziato ad addensarsi inesorabilmente nella mia testa. La partenza alle 5 con il buio, il rischio di forare o di avere qualche inconveniente meccanico che mi facesse perdere tempo, le strade trafficate del mattino. Ma soprattutto, quello che mi preoccupava maggiormente era la sicurezza della bici, che sarebbe rimasta due giorni ferma davanti al terminal bergamasco.

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La mia prima notte in bici, pedalando da Milano a Siena

È da più di un mese che sono bloccato a casa. Febbre alta, continue ricadute e doppio ciclo di antibiotici. In altre parole, un inizio di stagione sempre in panchina e che dovrebbe indurmi a riflettere sull’inesorabile incedere dell’età. Tuttavia – come mi è stato fatto notare da chi mi conosce bene – mai come in questa occasione, tutto ciò è la risultante di una serie di scelte estremamente discutibili. Pedalare in Grecia, sotto un’insolita nevicata, per poi salire direttamente sull’aereo del ritorno, senza avere la reale possibilità di asciugarmi. Ammalarmi e andare comunque allo stadio sotto una pioggia battente. Prendermi una forte ricaduta e decidere di interrompere l’antibiotico anzitempo perché “è inaccettabile che le case farmaceutiche facciano confezioni da sei giorni quando il ciclo è di sette”. Forse non si tratta del mio fisico che sta chiedendomi una pausa, ma della mia testa che sta regredendo a uno stato adolescenziale. Effettivamente va detto che, proprio come per gli adolescenti, il mio cervello in questi giorni sta sfruttando questo riposo forzato per rimettere in moto i sogni e i grandi progetti. Così, mentre nella testa si addensano innumerevoli idee più o meno impraticabili, mi ritrovo a guardare vecchie foto e ripensare a quell’assurda pedalata da Milano a Siena dove tutto è cominciato.

Siamo nel marzo 2022. La Strade Bianche è passata da una settimana e la mia macchina si trova presso un carrozziere calabrese alle porte di Siena. L’ho abbandonata lì al termine della granfondo, con la frizione ormai distrutta. Per recuperarla mi è toccato acquistare un biglietto del treno e prendere ferie. “Certo che è proprio triste utilizzare un giorno di riposo unicamente per viaggiare, recuperare la macchina e guidare senza sosta verso casa” dico tra me e me. “Sarebbe proprio bello andarci in bici. Se solo Siena non fosse così maledettamente lontana!”.

Alla vigilia della partenza, scrocco un pranzo da mia madre e, quasi per scherzo, le espongo queste mie perplessità. Lei, da donna pragmatica del sud, è categorica: “Umberto, ma sei cretino? Se vai in bici perdi il biglietto del treno che hai già pagato!”

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Road to qualcosa…

Per le persone come me non è mai facile trovare le motivazioni per ripartire dopo aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato, pianificato e alla fine realizzato. Non si tratta solo del nomale appagamento che tende ad assopire – per fortuna solo temporaneamente – la nostra sete di avventure. La preparazione per arrivare pronti all’evento sognato da tempo, con i suoi costanti sforzi, la pianificazione attenta e le inevitabili paure, è indissolubilmente legata al traguardo che si vuole superare. Un percorso lungo e tortuoso che si riverbera in quell’attesa leopardiana, che per me rappresenta l’essenza stessa del piacere.

Passato il grande evento, tagliato il traguardo tanto agognato, tutto questo svanisce: si riparte nuovamente da zero. Occorre, allora, trovare nuovi modi per dare un senso alla fatica. Incanalare la propria passione per trovare l’ennesimo obiettivo che consenta di riuscire a superarsi. Più grande è il traguardo raggiunto, più difficile sarà trovare la forza per rimettersi in moto.

In quest’ottica, per me che fino a un paio di anni fa non avevo mai immaginato si potesse pedalare per più di 200 chilometri nella stessa giornata, l’aver tagliato il traguardo della Parigi Brest Parigi è stato un fattore completamente destabilizzante: un’emozione profonda che inevitabilmente ha lasciato un enorme vuoto dietro di sé.

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