Da Varese a Firenze: la prima Fléche National e l’assenza del superfluo

La famiglia dei Dannati del Pedale si allarga. Con grande piacere, infatti, riceviamo e pubblichiamo il racconto di Emanuele Pizzato, che da alcuni anni continua a macinare instancabilmente chilometri in sella alla sua Poderosa e oggi ci racconta della prima Fléche National che si è svolta nel weekend di Pasqua.

Partecipare alla prima Flèche italiana per far parte della storia di A.R.I. (sembra che io stia cercando a tutti i costi un modo per essere ricordato). Facile entrare nella storia così, eravamo in poco più di 100 ciclisti, suddivisi in 25 squadre e sarebbe stato sufficiente pedalare per 360 chilometri in 24 ore.

Ma la Flèche è ben altro, non proprio una competizione, ma piuttosto una opportunità offerta al randonneur di riflessione su randagismo e di apertura alla condivisione della fatica e delle emozioni del viaggio (almeno nelle intenzioni degli ideatori). Perché il randagio è un solitario. Quando si pedala per ore, o per giorni nelle over 1200, è quasi impossibile avere le stesse esigenze dei compagni e, soprattutto, nello stesso momento.

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Senza arrendersi alla ragione

La sindrome di Galois, così mi è stato detto in una piacevole sera di mezz’estate, è quella tendenza a procrastinare una certa azione fino all’ultimo istante per poi compiere uno sforzo immane e a tratti autolesionista per portarla a termine entro le scadenze prestabilite. Una gestione del tempo del tutto divergente con il ciclismo – sport meraviglioso e liberatorio – che richiede dedizione e costanza per essere praticato a un livello tale da non lasciare dolorosi rimpianti nei giorni successivi alle pedalate più esigenti.

Eppure, non c’è niente da fare. Nonostante continui a ripetermi i soliti buoni propositi, ogni anno tra ottobre e novembre mi ritrovo quotidianamente a fissare i rulli accanto alla poltrona, trovando sempre una buona scusa per rimandare l’inizio degli allenamenti o a passere le domeniche sotto le coperte promettendomi che la settimana successiva sarà quella buona per riprendere a macinare chilometri. Procrastinare, procrastinare, procrastinare!

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In bici all’aeroporto di Bergamo: si può fare!

Oggi voglio condividere pubblicamente una esperienza positiva che mi è capitata di recente. Nei giorni scorsi avrei dovuto prendere un aereo alle 8.00 da Bergamo. Abitando appena fuori Milano, avevo pianificato di raggiungere l’aeroporto in macchina, in quanto da casa  i mezzi che mi collegano ad Orio al Serio non sono propriamente comodi, specialmente di mattina presto. La sfiga, tuttavia, si è messa di mezzo e il pomeriggio della vigilia il cambio della mia vecchia Mitsubishi Colt, compagna di mille avventure, ha deciso di bloccarsi definitivamente sulla retromarcia. Iattura infinita.

Davanti a me avevo solamente due opzioni: fare una levataccia e prendere i mezzi pubblici o tentare un’operazione circense, guidando all’indietro per tutti i 60 chilometri che mi separano dall’aeroporto. Devo ammettere che ero decisamente preso dallo sconforto. Poi, dopo un bicchiere di vino, mi è venuta l’idea: “ci vado in bici. Sarà comunque una levataccia, ma almeno mi diverto… e poi, facendo un calcolo spannometrico, dovrei metterci giusto mezz’ora in più che con i mezzi”.

Con il passare dell’effetto inebriante del Vermentino, i dubbi e le perplessità hanno iniziato ad addensarsi inesorabilmente nella mia testa. La partenza alle 5 con il buio, il rischio di forare o di avere qualche inconveniente meccanico che mi facesse perdere tempo, le strade trafficate del mattino. Ma soprattutto, quello che mi preoccupava maggiormente era la sicurezza della bici, che sarebbe rimasta due giorni ferma davanti al terminal bergamasco.

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La mia prima notte in bici, pedalando da Milano a Siena

È da più di un mese che sono bloccato a casa. Febbre alta, continue ricadute e doppio ciclo di antibiotici. In altre parole, un inizio di stagione sempre in panchina e che dovrebbe indurmi a riflettere sull’inesorabile incedere dell’età. Tuttavia – come mi è stato fatto notare da chi mi conosce bene – mai come in questa occasione, tutto ciò è la risultante di una serie di scelte estremamente discutibili. Pedalare in Grecia, sotto un’insolita nevicata, per poi salire direttamente sull’aereo del ritorno, senza avere la reale possibilità di asciugarmi. Ammalarmi e andare comunque allo stadio sotto una pioggia battente. Prendermi una forte ricaduta e decidere di interrompere l’antibiotico anzitempo perché “è inaccettabile che le case farmaceutiche facciano confezioni da sei giorni quando il ciclo è di sette”. Forse non si tratta del mio fisico che sta chiedendomi una pausa, ma della mia testa che sta regredendo a uno stato adolescenziale. Effettivamente va detto che, proprio come per gli adolescenti, il mio cervello in questi giorni sta sfruttando questo riposo forzato per rimettere in moto i sogni e i grandi progetti. Così, mentre nella testa si addensano innumerevoli idee più o meno impraticabili, mi ritrovo a guardare vecchie foto e ripensare a quell’assurda pedalata da Milano a Siena dove tutto è cominciato.

Siamo nel marzo 2022. La Strade Bianche è passata da una settimana e la mia macchina si trova presso un carrozziere calabrese alle porte di Siena. L’ho abbandonata lì al termine della granfondo, con la frizione ormai distrutta. Per recuperarla mi è toccato acquistare un biglietto del treno e prendere ferie. “Certo che è proprio triste utilizzare un giorno di riposo unicamente per viaggiare, recuperare la macchina e guidare senza sosta verso casa” dico tra me e me. “Sarebbe proprio bello andarci in bici. Se solo Siena non fosse così maledettamente lontana!”.

Alla vigilia della partenza, scrocco un pranzo da mia madre e, quasi per scherzo, le espongo queste mie perplessità. Lei, da donna pragmatica del sud, è categorica: “Umberto, ma sei cretino? Se vai in bici perdi il biglietto del treno che hai già pagato!”

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Road to qualcosa…

Per le persone come me non è mai facile trovare le motivazioni per ripartire dopo aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato, pianificato e alla fine realizzato. Non si tratta solo del nomale appagamento che tende ad assopire – per fortuna solo temporaneamente – la nostra sete di avventure. La preparazione per arrivare pronti all’evento sognato da tempo, con i suoi costanti sforzi, la pianificazione attenta e le inevitabili paure, è indissolubilmente legata al traguardo che si vuole superare. Un percorso lungo e tortuoso che si riverbera in quell’attesa leopardiana, che per me rappresenta l’essenza stessa del piacere.

Passato il grande evento, tagliato il traguardo tanto agognato, tutto questo svanisce: si riparte nuovamente da zero. Occorre, allora, trovare nuovi modi per dare un senso alla fatica. Incanalare la propria passione per trovare l’ennesimo obiettivo che consenta di riuscire a superarsi. Più grande è il traguardo raggiunto, più difficile sarà trovare la forza per rimettersi in moto.

In quest’ottica, per me che fino a un paio di anni fa non avevo mai immaginato si potesse pedalare per più di 200 chilometri nella stessa giornata, l’aver tagliato il traguardo della Parigi Brest Parigi è stato un fattore completamente destabilizzante: un’emozione profonda che inevitabilmente ha lasciato un enorme vuoto dietro di sé.

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Né pazzi, né sconsiderati: perché partecipare alla Parigi Brest Parigi?

Per comprendere le ragioni che mi hanno spinto a partecipare alla Parigi Brest Parigi è necessario tornare indietro di tanti anni, quando ancora non conoscevo l’esistenza di questa manifestazione e quando il tuffo sul materasso era l’unico sport che praticavo.

È l’estate 2012. Mentre il caldo afoso dei pomeriggi bolognesi ti imprigiona sul divano ed è impossibile anche solo pensare di uscire di casa, alla televisione l’inconfondibile voce di Franco Bragagna ci racconta le imprese degli atleti italiani alle Olimpiadi di Londra. Come sempre quando sono in compagnia di Riccardo e Francesco, due amici dell’Università, il pomeriggio scorre veloce, tra risate spensierate e birre ghiacciate. Eppure, ad un certo punto, complice anche il tasso alcolemico in rapida crescita, un’epifania fa a pezzi tutte le nostre certezze. Come una sentenza, Francesco se ne esce con una frase ovvia, ma al contempo spiazzante:

“Raga, ma vi rendete conto che ormai, anche se ci scoprissimo fenomenali in qualche sport, non potemmo mai andare alle olimpiadi”.

“Ma dai Francesco, non essere così drastico!” rispondo ridendo nel tentativo di parare il colpo “Guarda bene questi tiratori con l’arco, hanno i capelli bianchi e non mi sembrano poi così atletici. Fidati, è solo questione di trovare lo sport giusto!”.

Nonostante ci facevamo forti con questa considerazione poco ortodossa, è stato proprio in quell’istante che per la prima volta ho sentito sulla mia pelle l’inesorabile scorrere del tempo.

Ma la vita – si sa – è davvero imprevedibile e delle volte anche una frase goliardica scandita a mezza voce in un torrido pomeriggio di agosto può trasformarsi in una profezia che si avvera dopo oltre un decennio di distanza. Perché Francesco pur avendo ragione – bastava guardarci per capire che nessuno di noi avrebbe mai avuto la benché minima possibilità per partecipare a un’olimpiade – in realtà si sbagliava di grosso: “è solo questione di trovare lo sport giusto”.

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La mia grande sconfitta alla Parigi Brest Parigi

Ho ideato questo blog sognando un giorno di raccontare la mia Parigi Brest Parigi. Avevo addirittura creato una sezione apposita dove raccogliere tutti gli articoli che parlavano dell’avvicinamento all’appuntamento francese. Eppure, a distanza di due settimane da quando con gli occhi gonfi di gioia ho tagliato il traguardo di Rambouillet, devo ammettere sconsolatamente che da questo punto di vista la Parigi Brest Parigi è per me una grande sconfitta. Non sono, infatti, in grado di restituire con le parole nemmeno una piccola parte di quello che questo evento rappresenta realmente.

Dopo tutto, come si può pretendere di raccontare un’esperienza così grande? Solo a citare i principali numeri c’è da perdersi. 6749 iscritti prevenienti da oltre 60 diversi paesi. 1222 chilometri di sali e scendi, per un totale di 12.000 metri di dislivello. Ben quattro regioni francesi attraversate seguendo le migliaia di frecce con scritto Brest e le altrettante con scritto Parigi, poste con pazienza dagli organizzatori nei giorni precedenti alla partenza. Ma soprattutto, oltre 2000 volontari lungo tutto il percorso e diverse decine di migliaia di persone a bordo strada. Uomini, donne e tantissimi bambini che con i loro sorrisi, gli incitamenti, i loro “batti cinque” e i vari banchetti improvvisati con acqua, bevande e ristori di ogni genere, ci hanno sostenuto a tutte le ore del giorno e della notte. Un calore talmente grande da trascinarti al traguardo, lasciandoti spesso senza fiato mentre nella testa ti ripeti canticchiando: “We can be Hero, just for One Day”.

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Alcuni errori da evitare prima della Parigi Brest Parigi

Non avrei mai pensato di poter essere qui a Mulhouse, al confine tra la Francia e la Svizzera, con il cuore in gola a scandire le (ormai pochissime) ore che mi separano dalla partenza della Parigi Brest Parigi. Sto vivendo praticamente un sogno, perché checché se ne dica, se pur non l’avessi mai sentita nominare prima dell’anno scorso, come in un déjà-vu, certe cose capisci ti appartengono fin da subito. Eppure, nonostante agognassi a questo evento dal primo giorno in cui casualmente ho incrociato il mondo delle randonnée, l’avvicinamento all’appuntamento parigino è stato letteralmente un disastro.

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Appunti sparsi e disordinati dal Tour de France 2023

È stato un Tour de France bellissimo, corso a un’intensità folle in tutte le sue tappe. Un Tour caratterizzato da un percorso sperimentale, molto diverso da quello proposto dal Giro d’Italia, che ha visto trionfare con grande vantaggio Vingegard e la sua Jumbo Visma, dimostrandoci come, oltre a un talento fuori dal comune, la cura dei dettagli rappresenti la chiave del successo in questo ciclismo moderno ultra-competitivo. Un tour appassionante che è stato caratterizzato dal grande duello tra il danese e Pogacar: due alieni rispetto al gruppo. Due personaggi così diversi e così interdipendenti l’uno dall’altro. Un tour che ci ha mostrato per la prima volta il campione sloveno in piena crisi, facendoci capire che anche gli Dei – in fondo – hanno un tratto di umanità che li accomuna a noi mortali.

Un tour (forse l’ultimo della sua carriera) decisamente sfortunato per Mark Cavedish, che si è visto sfuggire per un salto di catena una vittoria già scritta che gli sarebbe valso il titolo di più vincente di sempre al tour de France, superando il record di vittorie di un certo Eddy Merckx, e il giorno successivo è stato costretto al ritiro a causa di una caduta banale.

Il tour dei gemelli Yates che, pur correndo in squadre diverse, spesso hanno avuto modo di collaborare verso obiettivi comuni. Il tour di Van Aert e Kuss, super campioni prestati a una causa più importante del proprio successo personale. Il tour del #RideForGino della Bahrein, che nel giro di poche tappe si è trasformato in un commuovente #WinForGino. Il Tour della gente, tantissima gente, proveniente da tutto il mondo e assiepata per cogliere l’attimo fuggente alla vista del plotone.

 L’ultimo tour di Thibault Pinot e Peter Sagan.

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La maglia della nazionale ARI

Doppia tonalità di azzurro: più chiaro all’altezza delle spalle e più scuro dal petto in giù. Logo Audax Randonneur Italia sulla destra e sulla sinistra il marchio BL. Al centro, in stampatello, la scritta ITALIA in bianco. Più in basso una fascia con la bandiera nazionale, con le strisce verdi, bianche e rosse ruotate di 70 gradi. Bordatura tricolore di circa un centimetro sulla manica destra. Altre due scritte ITALIA sulle spalle. Sul colletto capeggiano le date 2023-2026, in bianco. Sul retro, invece, svetta la scritta blu contenente l’acronimo ARI a cui si interseca, più in piccolo, la scritta ITALIA, anch’essa in bianco. Più in basso una grande fascia tricolore con i bordi ruotati di 70 gradi e la scritta bianca NAZIONALE ITALIANA RANDONEUR. Sulle tasche un logo giallo che invita di prestare attenzione a chi si appresta al sorpasso. Tessuto tecnico traspirante Dual con maniche in tessuto elasticizzato. Vestibilità aderente senza costrizioni.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, trovare una descrizione così fredda potrebbe diventare la quotidianità. Ma quanto sarebbe triste la vita se approcciata puramente in termini didascalico-materiali?

Perché la maglia appena descritta – quella della nazionale italiana randonnée – è stupenda a prescindere dal suo design o dal suo tessuto tecnico. Questa maglia è un simbolo. Un rito di ingresso dentro una comunità ciclistica fatta di persone dalle infinite inflessioni dialettali, così diverse e al contempo così simili tra loro. Un monumento alla tanta fatica fatta per averla e alla forza d’animo che ci ha spinto a non mollare nei momenti più disperati.

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