Pedalare nel silenzio della notte: la rando del Solstizio d’Inverno

Un po’ come per Jan Ullrich, la fine della stagione ciclistica per me è sempre stato un momento piuttosto particolare. Attratto dalla vita mondana, infatti, non è mai facile trovare il momento giusto in cui ricominciare a pedalare seriamente.

Mai come quest’anno, tuttavia, forse anche per via di un Autunno che ha scelto di essere proprio molesto, con la pancia dei giorni migliori, la muscolatura ormai rinsecchita e poco meno di cinquecento chilometri percorsi negli ultimi tre mesi, è arrivato inesorabilmente il primo appuntamento stagionale: la Randonnée del Solstizio d’Inverno, con i suoi 195 chilometri da percorrere tutti in notturna attorno al lago di Garda.

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È ora di rompere il silenzio

Quando ho dato vita a questo blog ho pensato anche a lui, Davide Rebellin, 51 anni, spinto da una passione talmente grande da diventare una vera dannazione. Una vocazione verso la bicicletta che non può essere spiegata con la lente di ingrandimento della fredda razionalità. Una passione oltre il senso comune, così travolgente da imporgli una vita di sacrificio e impegno per continuare stagione dopo stagione a pedalare nel gruppo, lottando con la stessa grinta di quando era ragazzino in mezzo ad atleti di trent’anni più giovani. Un esempio per tutti. Un inno alla Bellezza irrazionale di questo sport.

In queste poche righe sarebbe irrispettoso avere la pretesa di rendere omaggio a un campione nella vita, ancor prima che nello sport, il cui destino beffardo ha negato il diritto a vivere finalmente la sua passione in maniera più rilassata.

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Il Cicloviaggiatore

Viaggiare in bicicletta è una delle massime espressioni di libertà personale. Il cicloviaggiatore passa le giornate in mezzo alla natura, abbastanza veloce da poter cogliere il mutare rapido del paesaggio, ma al contempo sufficientemente lento da apprezzare a pieno gli scorci che si susseguono dinnanzi ai suoi occhi.

Il cicloviaggiatore pedala e si lascia alle spalle le preoccupazioni della società moderna, ricca di frenesie e ansie per ritornare a quello stato primordiale in cui prevalgono i suoi bisogni essenziali. “Dove andrò a dormire? Cosa mangerò? Troverò da bere? Che strada devo fare? Con chi potrò comunicare?” Una fuga dall’uomo oeconomicus verso quei valori di base che caratterizzato l’essenza stessa dell’essere umano.

In sella alla sua bicicletta, il cicloviaggiatore ha la possibilità di vivere il territorio in maniera privilegiata, attivando tutti e cinque i sensi. Oltre alla vista mozzafiato, infatti, ha la possibilità di cogliere le intense note aromatiche della macchia mediterranea. Riesce a percepire il sapore della salsedine che si accumula nell’aria o della polvere che si eleva dagli sterrati. Sente sulla sua faccia il vento gelido dei monti e la pioggia battente che lo coglie di sorpresa lungo il percorso. Ha la possibilità di ascoltare il suono dell’oceano o la babele di idiomi che in tutto il suo viaggio non mancheranno di fargli sentire il proprio sostegno.

Il cicloviaggiatore si risveglia quotidianamente in mezzo alla natura, pronto a ripartire verso nuove tappe: traguardi parziali che compongono una grande avventura, fatta di emozioni intense, fatica, grandi risate, paura di non farcela. Ogni mattina, al sorgere del sole, il cicloviaggiatore smonta la sua tenda e ripone minuziosamente le sue cose nelle borse gestendo maniacalmente il poco spazio a disposizione. La sua bicicletta è una vera e propria casa viaggiante su due ruote, efficientemente accessoriata, alimentata solo dalla forza delle sue gambe e dalla sua voglia di spingersi verso quell’orizzonte che appare sempre così lontano.

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Dentro il Lombardia: l’ultima corsa dello Squalo

Andare a vedere le gare di ciclismo dal vivo è un atto di fede: un rito laico e popolare che si tramanda da generazioni. Centinaia di persone che si radunano a bordo delle strade come tanti pellegrini in attesa di quel brivido fugace al passaggio dei propri idoli a due ruote.

Passione irrazionale. È difficile far capire a chi non c’è mai stato quale sia l’emozione che si prova ad essere in quel luogo e in quel preciso istante. In fondo si tratta solo di un attimo: un fugace tremito di pura passione. Pochi secondi per scorgere in mezzo ai tanti volti trasfigurati dalla fatica il proprio atleta preferito. Giusto il tempo di un “Alé” gridato con tutto il fiato che si ha nei polmoni e il gruppo inesorabilmente scompare dietro la curva.

Ma andare a vedere una corsa a bordo strada non è soltanto questo. È l’emozione unica che si prova a risalire – a piedi o ancora meglio se in sella a una bicicletta – quelle strade che nel giro di pochi minuti saranno teatro dello scontro tra i propri beniamini. Come se un amante del calcio potesse palleggiare indisturbato sul terreno di San Siro poco prima di un derby.

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Angliru: quel Mostro due metri sopra le nuvole

Decisi di provare a scalare l’Angliru nella tredicesima tappa del mio viaggio in bikepacking da Torino a La Coruña e devo ammettere che mai idea fu più inopportuna. Una scelta probabilmente peggiore di quella volta in cui Gi stava ospitando a casa due giovani studentesse cinesi e noi, convinti di fare omaggio alla rivoluzione culturale, ci presentammo a cena vestiti in pashmina. In quell’occasione, Jacopo, appena servito l’arrosto, tirò fuori dalla tasca il libretto rosso di Mao e, alzandosi in piedi, iniziò a recitare con voce solenne: “il nucleo dirigente della nostra causa è il Partito Comunista cinese. La base teorica che guida il nostro pensiero è il marxismo-leninismo”. Passarono solo pochi secondi prima che la voce ferma di Mei, la ragazza dallo sguardo più carino, interruppe bruscamente le prescrizioni del Grande Timoniere. “Dalle nostre parti non siamo soliti scherzare su queste cose!”. La serata era ormai compromessa: ci mettemmo più di mezz’ora prima di rompere nuovamente il silenzio imbarazzante che si era creato.

Nonostante questa storia possa sembrare assurda, l’aver deviato di oltre 100 chilometri per andare a pedalare sulle folli rampe dell’Angliru, con la pioggia che incombeva minacciosa e quasi alla fine di un viaggio che mi aveva già visto percorrere milleottocento chilometri e ventimila metri di dislivello, non si è rivelata una scelta meno inopportuna del nostro comportamento di quella strana serata di ormai 15 anni fa.

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Pedalando in Francia e in Spagna: mondi paralleli dove il rispetto del ciclista è una cosa seria

Noi italiani, si sa, non amiamo particolarmente i francesi. Non si tratta solo di una sana rivalità sportiva, la nostra diffidenza è spesso alimentata da questioni socio-culturali. Dopotutto come potrebbe essere il contrario quando vedi con i tuoi occhi certe aberrazioni? Penso al mio ultimo viaggio da Torino a La Coruña dove ho avuto modo di ammirare i nostri cugini d’Oltralpe mangiare delle tagliatelle alla carbonara da far rabbrividire persino lo chef Ruffi.

Immaginatevi un bel piatto di portata con al centro dell’abbondante pasta incollata su sé stessa, accompagnata con un sugo pallido e sottile a base di panna e pancetta. Per completare l’orrore, immaginate che a lato del piatto vengano consegnati al malcapitato avventore due piccoli contenitori: dell’emmental tritato grossolanamente e – incredibile ma vero – un tuorlo d’uovo crudo pronto per essere tuffato nell’intruglio appena servito. Di fronte a questa immagine non penso serva essere romani per gridare al crimine contro l’umanità.

Eppure, nonostante il nostro odio viscerale acuito da un certo integralismo enogastronomico, se parliamo di bicicletta e nello specifico di ciclabilità, ci tocca ammettere tristemente che i francesi sono di un altro pianeta.

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“Riportando tutto a casa”: il mio ciclioviaggio da Torino a La Coruña

Per raccontare un viaggio così intenso è necessario partire dall’epilogo, quando una decina di chilometri prima di raggiungere la spiaggia di La Coruña, con gli occhi lucidi dall’emozione riavvolgevo il nastro della mia avventura pensando a cosa mi stessi realmente riportando a casa.

Sono gli ultimi colpi di pedale di un viaggio di più di duemila chilometri e nella testa ho un mix di emozioni contrastanti. Ripenso alla brutta caduta di luglio e alle conseguenti paure della vigilia. Sono fermo al semaforo e osservo orgoglioso la mia eterna Cinelli capace di portarmi al traguardo anche questa volta, nonostante gli anni che passano e i 18 kg di bagagli: dopo questa avventura, forse, si merita anche lei un lungo riposo.

Osservo le onde del mare che si infrangono sulla scogliera e mi tornano alla mente le immagini della partenza dal Motovelodromo di Torino. Quattro chiacchiere in compagnia di alcuni amici venuti a farmi coraggio e la certezza – confermata appena qualche chilometro più avanti, lungo le dure rampe del Moncenisio – di quanto fossi impreparato per tutto questo.

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Date retta a un cretino: usate sempre il casco.

Non avrei mai pensato di dovere scrivere un articolo del genere, ma quando ti risvegli per terra circondato da personale sanitario e un paio di agenti di polizia, con il sangue che ti bagna la testa e senza ricordare nulla dell’accaduto, forse è giunto il momento di fare alcune riflessioni.

Come molti di voi, ho sempre usato il casco solo nelle uscite lunghe in bicicletta, mai nella quotidianità: “tanto in città si va piano”. Quando ero più piccolo, complice l’immaginario degli anni Novanta, le bandane del pirata e la folta chioma di “Re Leone” Cipollini, il casco lo mettevo solo quando il percorso prevedeva dei tratti in discesa. Dopo tutto, cosa vuoi che sia andare a venticinque, trenta all’ora al massimo, per una persona abituata a fare le discese libere con gli sci ai piedi?

Eppure, è proprio quando ci muoviamo spensieratamente in bici per le nostre città che corriamo i rischi maggiori. Il primo nemico è certamente il traffico, che nelle aree urbane è sempre maggiore che nelle tranquille strade che spesso accompagnano le nostre uscite domenicali. Una portiera aperta senza guardare, una macchina che gira senza mettere la freccia, un veicolo che ci sorpassa a forte velocità senza lasciarci il giusto spazio: tutte situazioni che ognuno di noi ha vissuto sulla propria pelle.

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I primi 100 km non si scordano mai

Ve li ricordate i vostri primi 100km? Quelli di Elisa si sono materializzati per caso, nel sabato più torrido dell’ultimo decennio.

Dovete sapere che Elisa, in tutta la sua vita, di chilometri ne avrà fatti al massimo 350, utilizzando biciclette che le sono sempre state prestate. In questo modo, si è ritrovata a pedalare con mezzi fuori misura che hanno contribuito a rafforzare il suo senso di equilibrio precario tipico di chi ha ancora una certa inesperienza nella guida. E, infatti, chi ha avuto modo di pedalare al suo fianco riconoscerebbe da centinaia di metri i suoi urletti di terrore (sempre del tutto ingiustificato) che accompagnano regolarmente i brevi tratti in discesa delle sue scampagnate domenicali.

Come tutti i novizi di questo sport, Elisa ha l’entusiasmo ingenuo e sfrontato di chi non sa bene a cosa stia andando incontro. “Questo weekend vado in campeggio nel piacentino con le mie amiche, che ne dici se ci andiamo insieme in bicicletta?” la sua inattesa richiesta in un caldo pomeriggio di luglio. Ma il destino di ogni sognatore è sempre legato a qualcuno che lo mette di fronte alla dura realtà.  “Eli, ma sei impazzita? Sono oltre 100 km e fuori ci saranno quasi quaranta gradi”.

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I randonneur.

I randonneur sono persone uniche nel loro genere: i più dannati tra tutti i dannati del pedale. Sono uomini e donne all’apparenza normalissimi, i classici vicini della porta accanto. Hanno fisici per nulla scolpiti e spesso hanno anche tanti capelli bianchi. Eppure, i veri randonneur sono le persone più forti e invincibili con cui vi capiterà di parlare.

I randonneur se ne fregano dei limiti fisici e mentali di un essere umano, loro vivono la bicicletta in maniera totale. Riescono a stare in sella per giorni interi, senza mai fermarsi e cedere alla fatica. Affrontano salite a ripetizione, anche decine di migliaia di metri di dislivello in sequenza, senza mai smettere di puntare al proprio personale obiettivo. Ognuno con il proprio passo. Ognuno in perfetta armonia con il proprio corpo. Ognuno con la consapevolezza che per ogni eventuale fallimento ci sarà sempre una nuova sfida per potersi rimettere alla prova.

I randonneur pedalano di giorno, di notte, nel freddo rigido dell’inverno e sotto il caldo torrido dell’Anticiclone africano. Non si curano dei violenti temporali che possono coglierli durante le loro imprese o degli animali selvatici che puntualmente attraversano la loro strada durante le notti a pedalare.

I randonneur hanno biciclette modificate per le grandi distanze, accessoriate con dinamo e borse spesso autoprodotte, che gli permettono di pedalare per giorni in totale autonomia, o come dicono loro “in autosufficienza”. A differenza dei loro cugini che fanno le granfondo, non si curano dei graffi sul telaio, anzi ne vanno fieri in quanto ricordi indelebili delle loro avventure.

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